“La vita non è una questione di come sopravvivere alla tempesta, ma di come danzare nella pioggia”.
Ecco, in queste parole c’è tutto. C’è Giulia. C’è suo padre. Ci sono Io. Ci sei Tu.
Perché in questi versi di Khalil Gibran, scelti da Gino Cecchettin per ricordare e, oltremodo, omaggiare la figura di sua figlia, è condensato il senso ultimo di ogni cosa, il nostro stare al mondo che deve essere qualcosa in più del semplice esistere, un qualcosa degno dell’infinito “vivere” sebbene, sosteneva Marcello Veneziani in un suo saggio di qualche tempo fa, vivere a volte non basta, non è sufficiente per rendere davvero omaggio alla meraviglia del nostro battere e levare, al dono della nostra carne e del nostro fiato. Insomma, ci vuole qualcosa in più. Magari una missione che ci permetta, per l’appunto, di danzare e far danzare nella pioggia. Si, anche quando il temporale si tramuta in una bufera che destabilizza, disorienta, strappa le vele e genera dei marosi difficili da solcare.
In realtà oggi il signor Gino ha detto una piccola, dolcissima bugia. Non è vero che non sa pregare, tutt’altro. Nell’etimologia del termine l’atto del pregare deriva dalla volontà di chiedere, di domandare, e quindi di porsi umilmente dietro una siepe leopardiana confidando nel fatto che oltre quell’arbusto vi sia un’alta probabilità di scovare risposte. Risposte ovviamente di Senso, risolutive, appaganti e lenitrici perfino di dolori immensi e indicibili come quelli causati dalla perdita di una figlia.
Roberto Vecchioni, in una sua celebre canzone, ha messo in musica queste strofe: “Ahi Velasquez, com’è duro questo amore / Mi pesa la notte prima di ricominciare / E tante veglie, come soglie di un mistero / Per arrivare sempre più vicino al vero”.
Gino Cecchettin ha mentito poiché lui spera, desidera ardentemente di farsi inondare dalla speranza, di abbandonarsi ad essa. La speranza implica l’attesa paziente e fiduciosa di una venuta che dia pace e un nuovo inizio. In virtù di ciò ritengo che il papà di Giulia non solo sappia pregare, ma sia andato ben oltre alla formulazione dei quesiti terreni e al contempo metafisici: lui chiede poiché intuisce che qualcuno è in grado di fornire la risposta corretta a quelle domande disperate. Una risposta che al momento non c’è ma che di certo arriverà. Da qui la speranza che, non per nulla, assieme alla fede (e alla carità) rappresenta una virtù teologale.
Gino Cecchettin ha detto esattamente questo: “Voglio sperare che tutta questa pioggia di dolore fecondi il terreno delle nostre vite. E voglio sperare che un giorno possa germogliare. E voglio sperare che produca il suo frutto d’amore, di perdono e di pace”.
Alla fine di tutto, al culmine di questo “panta rei” mediatico, politico, morale ed eccessivamente esornativo, in fondo rimane solamente questo: amore, perdono e pace. Tre parole semplici eppure apparentemente folli e parossistiche per uno sguardo nemmeno nichilista, ma semplicemente prigioniero di un orizzonte di vita schiacciato dell’incapacità di accettare i propri limiti, la finitudine dell’Io. Diceva Kant che la condizione umana è quella di essere pari ad un legno storto, imperfetto, pieno di nodi e nervature. E ciononostante, in questo capolavoro di imperfezione, riusciamo ugualmente a custodire una sete d’assoluto.
Pian piano l’occhio vigile delle telecamere verrà indirizzato verso altri fatti di cronaca. I nomi di Giulia, di Filippo, dei loro cari, li ricorderemo in pochi, di sicuro saremo meno di quanti siamo ora. In quel fazzoletto di Veneto il dolore di certo rimarrà, si ritaglierà sartorialmente sulle spalle dei Cecchettin e dei Turetta come insegna Tolstoj: ognuno d’altronde percepisce il suo personalissimo dolore, distinto e distante dell’oblio altrui.
Eppure una risposta arriverà, magari impiegherà del tempo ma arriverà, per sanare un sogno spezzato, una laurea non discussa e l’impossibilità di vivere, amare e soffrire per svariati decenni come è diritto di ciascuno di noi. Mentre sto scrivendo ricordo un passaggio della celebrazione eucaristica che, da laico, mi ha sempre colpito. Dovrebbe fare, più o meno, così: “Oh Signore, non son degno di partecipare alla tua mensa, ma dì soltanto una parola ed io sarò salvato”.
Noi saremo salvati.
E una volta salvi festeggeremo sotto la pioggia mentre Giulia, come in un quadro di Chagall, disegnerà una danza lieve e felice tra le braccia di sua madre.
Aggiornato il 07 dicembre 2023 alle ore 10:09