Il ragionevole dubbio non va più di moda

Da incallito garantista, sono rimasto basito nell’ascoltare lunedì scorso, su La7, l’intervento della giovane criminologa Anna Vagli in merito alla drammatica uccisione di Giulia Cecchettin. Malgrado il reo confesso, Filippo Turetta, non sia stato ancora rinviato a giudizio, la nostra eroina non ha espresso alcun dubbio: il delitto è stato premeditato e realizzato con la massima crudeltà e lucidità, escludendo ogni possibile attenuante o spiegazione di natura emotiva. Quindi, prendendo per oro colato questo giudizio lapidario, perché sprecare tempo e molti quattrini del contribuente in un lungo iter processuale imposto dal nostro noioso sistema di garanzie? Chiudiamo l’ennesimo mostro da prima pagina in gattabuia e gettiamo la chiave.

Ora, la cosa che colpisce è che la stessa criminologa, come riporta sul suo curriculum pubblicato in rete, si è laureata in giurisprudenza con una tesi sul diritto anglo-americano. Diritto anglo-americano nel quale, per la cronaca, quel fastidioso ragionevole dubbio, di antichissima radice romana (in dubio pro reo), rappresenta spesso il vero protagonista del processo penale, contrariamente a ciò che altrettanto spesso accade in Italia (il caso Tortora docet). In particolare, tra gli elementi che la nostra esperta ha portato a sostegno della sua granitica tesi vi è il ritrovamento, nell’auto di Turetta, di un rotolo di nastro adesivo il quale, insieme a un coltello, dimostrerebbero la premeditazione a compiere l’omicidio.

Ma se, al contrario, l’ex fidanzato di Cecchettin avesse solo voluto rapire la ragazza, o semplicemente impaurirla, per poi perdere il controllo, uccidendola a seguito di una serie di irrefrenabili impulsi aggressivi, visto che il delitto sembrerebbe avvenuto in un ampio lasso di tempo? Questa è ovviamente solo una delle tante ipotesi che, basandoci come la criminologa sui dettagli raccolti a spizzichi e bocconi dalla stampa, si possono ragionevolmente elaborare. Tuttavia, se di un orrendo fatto di ordinaria follia criminale facciamo una questione di rilevanza politica, strumentalizzando il crimine per interessi di bottega, allora il discorso cambia. Il garantismo va a farsi friggere, mentre si diffonde attraverso i megafoni di un sinistro femminismo, molto invecchiato ma sempre pronto a ruggire all’occorrenza, l’ira funesta contro la dilagante cultura patriarcale.

Quindi, nessuna attenuante a prescindere per un ragazzo che, probabilmente a sua insaputa, ha cercato di affermare con la violenza più brutale l’egemonia della medesima cultura patriarcale. Ma forse una strada alternativa per evitare questo orrendo ambaradan mediatico-giudiziario, che tende a orientare preventivamente chi è chiamato a giudicare, c’è. Basterebbe limitarsi a far celebrare i processi nei tribunali, evitando di sommergere gli imputati di turno sotto una valanga di pregiudizi diffusi a mezzo stampa.

Aggiornato il 06 dicembre 2023 alle ore 09:29