L’inattività dei giovani: i dati Istat allarmano

Notizie preoccupanti arrivano dagli ultimi dati Istat. I risultati statistici elaborati dall’Istituto mostrano come un giovane su quattro risulta inattivo, ovvero non cerca lavoro. Sono quasi 1,7 milioni i giovani che non possono definirsi né disoccupati, né inoccupati e né tantomeno risultano inseriti in percorsi di formazione o di orientamento lavorativo. Una percentuale, quella di inattività, che si registra in Italia e che giunge alla soglia del 25,4 per cento, conquistando la posizione più alta della classifica rispetto ai restanti Paesi europei, dove la media si ferma al 15 per cento. Così come elevata risulta la quota dell’indicatore Neet (Not in Education, Employment or Training) con quale si indica la popolazione di età compresa tra i 15 e i 29 anni non coinvolta in alcuna attività di studio, occupazione o formazione.

Allarmante è, infatti, il tasso di abbandono scolastico dove emerge una delle incidenze più elevate d’Europa (12,7 per cento) dopo la Romania (15,3 per cento) e la Spagna (13,3 per cento). Una situazione che sembra poi essere peggiorata rispetto al dato territoriale, se si considera che il 55,6 per cento degli inattivi sotto i 35 anni si concentra nel Mezzogiorno. L’analisi nazionale conferma ancora una volta il forte distacco tra il Nord e il Sud Italia. Infatti, se il Nord con Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia-Romagna e Trentino-Alto Adige offre ai giovani le migliori condizioni per lavorare e per fare impresa, al Sud cresce la percentuale dei giovani che dichiara di non avere interesse o bisogno di lavorare. E se a questi dati aggiungiamo l’aumento dell’invecchiamento della popolazione, gli effetti sull’economia del Paese si prospettano seriamente rischiosi, soprattutto per non sfruttare a pieno le potenzialità di crescita dell’economia.

Ovviamente, le ragioni del rappresentato quadro, tutto italiano, sono molteplici. La crisi economico-finanziaria segnalata negli ultimi anni, dovuta alla pandemia da Covid-19, non ha sicuramente frenato la carenza di opportunità lavorative e la conseguente crescita di disoccupazione. Ma la stessa non può considerarsi la sola ragione. Esistono fattori sociali, educativi e culturali che contribuiscono alla scelta di non impegnarsi. In particolare, si vuole far riferimento al ruolo della “società” tale da condizionare fortemente il futuro giovanile, a fronte della pressoché assenza di un sostegno sociale adeguato, che abbia il fine ultimo di supportare i giovani a trovare la propria prospettiva.

Agli investimenti legati al Pnrr – e agli interventi adottati dal Governo con il nuovo decreto Lavoro – occorre aggiungere la realizzazione di una vera e propria rivoluzione copernicana. Perché se il modello di riferimento sociale continua a essere dettato dai social network, appare difficile che un giovane abbia il desiderio di sottoporsi a sacrifici, studiando o lavorando.

Aggiornato il 24 luglio 2023 alle ore 15:01