Sembra che si stia materializzando un’ondata moralizzatrice contro il turpiloquio e, in particolare, contro i discorsi “sessistici”, le frasi “razziste” e, ancor più, contro il “body shaming” di vari protagonisti mediatici appartenenti al mondo dello spettacolo e della comunicazione, ormai caduto nella più repellente e sguaiata trivialità. Il quotidiano La Stampa di Torino sembra volersi mettere all’avanguardia di questa campagna per la decenza del linguaggio: un titolo a tutta pagina dell’edizione di oggi 18 luglio 2023 urla a squarciagola: “Rai. Tuffo nella vergogna”. La campagna è in stato di celere avanzamento, forse anche motivata dall’indignazione verso gli ancora impercettibili mutamenti degli equilibri politici nella formazione dei palinsesti dei programmi Rai. A febbraio, infatti, il livello di riprovazione della volgarità televisiva era sensibilmente minore. Quando, infatti, al Festival della canzone di Sanremo due protagonisti maschi dello spettacolo simularono un coito, non si alzarono purtroppo le stesse vibranti proteste che si sono udite per le disgustose pseudo-barzellette di un commentatore televisivo ai mondiali di nuoto. Addirittura, il Tribunale di Imperia, su richiesta conforme di archiviazione del locale Pm, ebbe all’epoca a dichiarare, pronunciandosi sull’esposto presentato da alcuni volenterosi e meritevoli cittadini, che quell’atto osceno, edulcorato anglofonicamente dal giudice come un atto di “twerking”, non aveva alcun rilievo penale per la ragione che, essendo stato realizzato dagli indagati alle ore 22.50, cioè in una fascia oraria non destinata agli infraquattordicenni, quell’oscenità poteva tranquillamente inondare le abitazioni d tutti i cittadini, anche di quelli infraquattordicenni che, per avventura, avevano preferito vedere l’intero spettacolo canoro piuttosto che ritirarsi in camera a leggere testi edificanti.
D’altra parte, i reati di atti e di pubblici spettacoli osceni sono stati depenalizzati con il Decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8. Quindi, la pronuncia liberatoria del Tribunale di Imperia nei riguardi degli autori di un coito simulato, nel bel mezzo di una trasmissione televisiva destinata a un pubblico di milioni di persone, troverebbe giustificazione nella legge. Pochi, purtroppo, si erano posti all’epoca della depenalizzazione il problema se fosse opportuno, proprio in un periodo in cui le manifestazioni oscene pubbliche divenivano sempre più provocatorie e aggressive, togliere rilievo penale a quei reati. Scorrendo sempre le pagine de La Stampa del 18 luglio, mi sorprende un altro titolo edito sempre a scopo moralizzatore. A pagina 8 vedo: “Io, le Pitonesse di Cortina e la satira che cura il turpiloquio”. Chi parla è Enrico Vanzina, intervistato dalla giornalista Mirella Serri. Mi domando subito: “Come? la satira cura il turpiloquio?” e: “Forse che Enrico e Carlo Vanzina con la loro satira versata per decenni in salsa cinematografica hanno curato il turpiloquio?”.
È noto che Enrico Vanzina, nonché il fratello Carlo, sono stati gli sceneggiatori e i produttori di innumerevoli film appartenenti al genere della “commedia all’italiana”, che ha infestato le sale cinematografiche e poi la televisione per irridere i costumi popolari, amplificandone i vizi, ignorando le virtù civiche e sociali e disprezzando le virtù morali, soprattutto la laboriosità e l’amore familiare. I personaggi dei film erano quasi sempre approfittatori, codardi, accidiosi, cinici, lussuriosi, traditori, vanitosi, invidiosi: questi personaggi rappresentavano, secondo i Vanzina e i loro imitatori, il paradigma dell’italiano medio. Questi personaggi erano adusi al turpiloquio, che mescolava uomini e donne in un lessico incivile, che un tempo caratterizzava le esternazioni barbariche di coloro che frequentavano abitualmente i lupanari.
Enrico Vanzina viene ora arruolato tra i moralizzatori che rimproverano la volgarità che occupa gli spettacoli e le trasmissioni Rai. Finalmente anche il giornalismo à la page si è dato per missione di sostenere che l’oscenità non va bene! I Vanzina hanno descritto con innumerevoli film personaggi arrivisti, cinici e sessisti, individuando in tali figure i prototipi degli italiani. Il linguaggio comune è stato degradato. Quanto è distante il tempo presente da quello in cui (erano gli anni precedenti al ‘68) nelle scuole superiori i ragazzi si guardavano bene dal pronunciare parole triviali in presenza delle compagne di scuola per non apparire sfrontati e per non perdere la loro simpatia!
Ma Vanzina produceva modelli sessisti e turpiloquenti perché “a metà degli anni Settanta, ci siamo resi conto che esisteva una Italia nascosta, che nessuno andava a scovare. Abbiamo così deciso di esplorare, criticandola, quella Penisola che nessuno descriveva perché c’erano molti pregiudizi ideologici. Noi, proprio come diceva Ettore Scola, non siano mai stati moralisti ma abbiamo cercato di far emergere tutte le fragilità senza però identificarci”. Dunque, il programma sarebbe stato il seguente: scovare un’immoralità che, per pregiudizi ideologici, rimaneva nascosta; renderla paradigmatica per tutto il popolo, senza però identificarsi in essa. Il progetto fu dunque pensato come un breviario alla diseducazione etica di un popolo, in cui non ci si voleva però identificare. Infatti, stando al di fuori di questo mondo e guardandolo dall’alto, i Maître à penser disegnarono modelli sfigurati contrassegnati da una viziosità occulta, senza tener conto che talora essa rimaneva occulta per una sorta di pudore e di vergogna che ciascuno aveva per il vizio; i Maître à penser diffusero senza alcuna remora tali modelli come se fossero generalizzabili a tutto il corpo sociale; come se corrispondessero alla normalità della vita; come se fossero gradevoli e attraenti.
Però, il fine paradossalmente era buono: l’operazione era elitariamente compiuta dall’alto per satireggiare, ma, soprattutto, per educare l’intero corpo sociale! Tanto è vero che, all’intervistatrice la quale, richiamando il luogo comune dell’egemonia culturale della sinistra, gli domanda se ora (in cui la sinistra non sarebbe più al potere) “è la volgarità che ha preso il potere”, Vanzina risponde: “Abbiamo precorso i tempi con i nostri film. Le nostre macchiette e le nostre parodie sembrano incarnare la tipologia prevalente tra gli italiani. L’unico modo per combattere il modo di esprimersi sessista, grossolano e al limite della decenza sono ancora l’ironia e la satira”. La risposta è paradossale. Anzitutto Vanzina ammette il ruolo paradigmatico e trainante delle “macchiette” e delle “parodie” di cui egli – insieme a tanti altri uomini e donne di cinema e di spettacolo – è stato inventore e diffusore.
La constatazione è agghiacciante: gli italiani attuali incarnerebbero quei vizi e quelle bassezze che la filmografia rappresentava in guisa di derisione e di satira. La satira allora non avrebbe svolto quel ruolo positivo che Vanzina gli attribuisce. Se fosse integralmente vero che gli italiani, nella loro maggioranza, incarnano quei vizi e quelle bassezze – ma così non è, perché vi sono a tutt’oggi milioni di italiani che vivono in una condizione di modesto benessere o di dignitosa povertà, nella disponibilità al sacrificio per il bene e il sostegno agli altri – vi sarebbe la prova del contributo alla diseducazione e alla volgarità che i modelli cinematografici hanno arrecato al vivere civile.
La conclusone di Enrico Vanzina è paradossale: “L’unico modo per combattere il modo di esprimersi sessista, grossolano e al limite della decenza sono ancora l’ironia e la satira”. Cioè, per esprimersi fuori di metafora, il rimedio contro la volgarità e il turpiloquio sarebbe continuare a rappresentare sconcezze agli italiani, purché, naturalmente, tali rappresentazioni suonassero come una presa in giro nei loro confronti, proveniente dai piani alti dell’intelligenza. Insomma l’élite vorrebbe usare il veleno come un farmaco. Ma non si rende conto questa élite dell’elementare verità che il turpiloquio e il sessismo moltiplicano tanto il primo quanto il secondo. Il veleno è sempre veleno. Occorre avere il coraggio di rappresentare non le sconcezze, ma la santità dei costumi. E questi costumi, ancora oggi ampiamente presenti in Italia tra tutti coloro che sopportano le difficoltà della vita con spirito di sacrificio e di donazione meritano di essere rappresentati affinché più non siano derisi, ma imitati e amati.
Il rimedio di Vanzina è invece quello di sempre. Risuona nel titolo dell’intervista: “Io, le Pitonesse di Cortina e la satira che cura il turpiloquio”. Il suggerimento assomiglia a quello di chi volesse combattere la droga con una droga a più intensa efficacia drogante; la ludopatia con la maggiore esposizione al gioco d’azzardo; il turpiloquio con l’avvolgimento del linguaggio nella completa esternazione della turpitudine e delle sconcezze indegne delle persone civili. Confesso che la campagna moralizzatrice, se condotta con i metodi di Vanzina, accompagnati dai rimproveri severi del quotidiano torinese, non mi convince. Per combattere sessismo, razzismo e turpitudine del genere occorre mutare radicalmente i modelli di riferimento e ricominciare con umiltà ad amare e praticare le virtù tanto disprezzate: la pietà dei cittadini; la laboriosità dei lavoratori; la fecondità dei matrimoni; la sobrietà dei costumi; la cura per i figli; l’assistenza generosa agli anziani e ai malati. Ho sempre odiato la truce e oscena “commedia all’italiana” che ha irriso per troppo tempo i costumi popolari, amplificandone i vizi, ignorando le virtù civiche e sociali e disprezzando le virtù morali. La morale che oggi mi si vorrebbe impartire da coloro che hanno contribuito a distruggere l’ethos e la civiltà di un popolo mi suona sospetta. Escludo che il veleno possa diventare un farmaco.
(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino
Aggiornato il 21 luglio 2023 alle ore 13:01