Economia e dialettica sociale

Da tempo dedico attenzione, sociologica non strettamente economica, in ogni caso ovviamente anche economica, ai sistemi produttivi. Mi sono reso consapevole in forme più certe, verificabili e verificate che la tecnologia ha spezzato la relazione tra lavoro umano e produzione, tra lavoro umano e produttività. Il prodotto non sorge dal lavoro umano, dal nesso lavoro/valore, fondamento dell’economia classica e anche della critica dell’economia classica, al dunque: Smith e Marx.

La merce viene con maggiore contributo dalle macchine, dal capitale morto, quando pure le macchine provengono dall’uomo, anzi ormai neanche tale vincolo regge, l’apporto delle macchine alla produzione di altre macchine è di esuberante consistenza rispetto al lavoro umano. Come regolare il salario, l’emolumento, se la produzione immane viene dal premere un pulsante di macchinari che forgiano macchinari, macchine che suscitano macchine? Salta, esplode l’intero assetto tradizionale dei sistemi produttivi. E il processo sarà accrescitivo fino al possibile esaurimento dell’impiego di lavoro pratico umano, attraverso i robot, e del lavoro mentale, con il robot intellettualizzato artificialmente.

Gli effetti di questa modificazione del lavoro necessario ai sistemi produttivi determinano modificazioni dei sistemi produttivi, vari: si riduce l’orario di lavoro; si licenzia; si concepiscono nuovi lavori. Ipotizzare altri lavori fa parte del possibile, il possibile non necessariamente si attua, non sappiamo se creeremo altri lavori dai presenti in modo che vengano impiegati quelli che sono stati licenziati, non abbiamo la verifica. Diminuire l’orario di lavoro sarebbe la soluzione fisiologica, se un operaio produce di più con orario ridotto. Soluzione fisiologica, ma impervia. Se tende alla massimizzazione del profitto, l’imprenditore preferisce licenziare per mantenere meno operai o addirittura sostituirli alla radice; l’automazione ha questo scopo ultimativo, invece che abbassare l’orario di lavoro a salario mantenuto data l’accresciuta produttività e produzione, che però l’imprenditore attribuisce alle macchine non ai lavoratori.

Come che sia, il nesso lavoro come valore della merce in un sistema automatizzato svanisce e se è apparentemente utile per l’imprenditore carica le società di circostanze patologiche, irregolari: bonus, denaro a fondo perduto e senza lavoro e quant’altro, accorgimenti che non colgono e non rimediano la base del problema; le macchine hanno infranto il valore del lavoro come misura del valore della merce e non sappiamo come valutare il lavoro residuo rispetto alla produttività ed alla produzione. Taluni Paesi come la Spagna e la Germania sperimentano la diminuzione dell’orario di lavoro, nel nostro Paese qualche pronunciamento esiste al riguardo. Io ho ipotizzato l’impresa di lavoratori che regola orari, salari e profitto in maniera da salvarsi nell’occupazione: una auto-occupazione. Francesco Delzio, nel suo “L’era del lavoro libero” (Rubbettino Editore), ritiene che abbassare l’orario di lavoro permetterebbe all’Intelligenza Artificiale ed ai robot di collaborare nella produzione. Non sono convinto nel lungo termine, avverrebbe come per l’immigrazione, cioè la sostituzione e non l’integrazione.

Non si percepisce che robot ed Intelligenza artificiale (e ancora per un certo periodo l’immigrazione) hanno la finalità essenzialissima di minimizzare i costi di produzione e rendere ultra-competitive le imprese. Siamo in attuazione non di fenomeni integrativi ma di fenomeni sostitutivi, nel campo alimentare, nel campo della natura, il cibo di laboratorio, la natura innaturalizzata, nella genetica, insomma epoca della sostituzione e, come detto, sostituzione nei sistemi produttivi. Una evoluzione (involutiva?) irrevocabile, la tecnica è irresistibile e vuole (l’uomo vuole la tecnica) questa sostituzione, la fine del lavoro e quindi del potere dei lavoratori.

I sistemi produttivi cercavano, riuscendo, di rifare la natura e di eliminare il valore lavoro per rendersi autosufficiente dalla natura e dall’uomo? È così. I sistemi tecnologici tendono alla autosufficienza dalla natura e dagli uomini. E a far passare natura ed uomini dalla presa della tecnologia. Non c’è niente da fare? Siamo nel “destino” sociale ed esistenziale della predominazione onnitecnologica, come qualche pensatore reputa quale scopo dell’Occidente? No, assolutamente. C’è da fare anzi c’è proprio da fare appunto perché rischiamo la situazione esposta, la fine del lavoro come valore dell’uomo, la fine della natura. E che c’è da fare? Quando la produzione sarà immensa e quasi del tutto consegnata all’Intelligenza artificiale ed ai robot, c’è da fare una scelta di una semplicità balbettante: dare all’umanità la produzione che avviene ormai senza corrispettivo di lavoro. Attenzione: non dare per non lavorare, no, assurdo, ma dare al di là del lavoro, secondo la produzione, poiché il lavoro non è più il metro del valore, con pochissimo lavoro si produce moltissimo.

Rendere sociale la produzione ultra-potenziata. L’apporto del lavoro sarà minimo, incalcolabile come plusvalore della merce; l’apporto del lavoro ha gli anni contati. Su questo fenomeno fenomenale sarebbe necessaria una riflessione analitica di persone responsabili in merito a quel che sta accadendo, accade un fenomeno trasfigurativo, metamorfico, esplode e per sempre il rapporto che teneva il lavoro dell’uomo, teneva l’uomo a base del sistema produttivo e del valore della merce, mai più, quindi noi dobbiamo dare non secondo il lavoro ma secondo la produzione.

Punto epocale, millenaristico, esige una distorsione della mentalità passata. Se l’umanità riflettesse sulla indispensabilità di mettere d’accordo le immani forze produttive a beneficio della gigantesca popolazione umana, noi avremmo l’epoca più equilibrata, fiduciosa, fisiologica nella complessa e impervia storia dell’umanità. Più produzione, più distribuzione. Il robot sociale, la produzione scatenata per favorire i bisogni da soddisfare. Questo è lo scopo “oggettivo” della tecnologia, la quale di per sé non è aberrante, non vale condannare la tecnologia. È aberrante una tecnologia che tenta di essere usata in maniera impropria, secondo regole superate dialetticamente, quando il valore sorgeva dal lavoro umano misurabile.

Oggi, non potendo misurare l’apporto del lavoro, dobbiamo dare secondo la potenza produttiva. È la “logica” del futuro. Profittare della potenza produttiva per metterla a disposizione della spesso disperata popolazione umana. Non segnare guerre che riducono la popolazione ed eliminano la disoccupazione, non segnare pandemie che riducono i vivi; l’opposto, far vivere tutti meglio che possiamo e possiamo farli vivere meglio, accrescendo la produzione con finalità di distribuzione sociale senza un vincolo misurabile con il lavoro. Certo, dobbiamo modificare orari, salari e profitti. Ma c’è qualcuno che crede di poter mantenere orari, salari e profitti al modo andato quando il valore veniva dal lavoro e non vi era l’automazione? Se la distribuzione al di là del lavoro (non senza lavoro o per non lavoro, avrò modo di precisare) appare una utopia, il mantenimento dei canoni passati nei sistemi produttivi in epoca automatizzata è una costrizione che porterà guerre, guerre e guerre finali.

Qualcuno vorrebbe assicurarsi i mercati e impedire agli altri i mercati, ne sorgerebbero tensioni mortali. Se invece si cerca di soddisfare l’umanità, il consumo sarebbe strabiliante. Ci sarebbe posto per tutti. Non c’è possibilità di usare le tecnologie se non mettendole a disposizione di tutta l’umanità, altrimenti restiamo nella patologia sociale che porta alla rovina delle società: licenziamo e cerchiamo di escludere gli altri dal mercato mondiale. No. Fisiologia sociale, se possiamo produrre immensamente la potenza produttiva produca immensamente a favore dell’umanità che la consumerà e ne ha bisogno.

Sogni? Per niente. Saremo costretti dalla iperpotenza delle forze produttive. Del resto, che vi è di realistico nel voler conciliare iperproduzione e disoccupazione di masse? È una via che sbatte contro il muro di una produzione senza consumatori. Chi vedrà, vivrà.

Aggiornato il 31 maggio 2023 alle ore 13:04