In Rai è iniziata tra dirigenti, giornalisti e dipendenti la corsa a chi è più indignato, dissociato con obiettivo di diventare “imboscato” in qualche struttura dove non si produce ma si legge la “mazzetta” dei giornali o si passa il tempo collegandosi a Internet. Stanno emergendo categorie di dipendenti del servizio pubblico che non accettano i cambiamenti che i nuovi vertici vorrebbero apportare per “un’azienda equilibrata, dinamica e pluralista”.
Da decenni a viale Mazzini, Saxa Rubra, via Asiago a Roma, a Corso Sempione a Milano, al centro di via Verdi a Torino, al Centro di produzione di Napoli, nella maggioranza delle sedi regionali hanno “dettato legge” gli esponenti legati all’Associazione dirigenti (Adrai), all’Usigrai (giornalisti) e ai sindacati confederali (con qualche eccezione per il Libersind e l’Ugl tra i dipendenti amministrativi e tecnici).
Agli “indignati” di oggi per le nuove nomine vanno ricordate le modalità della prima rivoluzione organizzativa del 1975 con la nascita della Rete due per accogliere le pressioni laiche dei socialisti e della nascita nel dicembre del 1979 della Terza Rete per venire incontro alle richieste dei comunisti.
La lottizzazione perfetta nacque in casa di Antonio Tatò, braccio destro del segretario del Pci Enrico Berlinguer, con la presenza dei democristiani Biagio Agnes e Clemente Mastella, dei comunisti Walter Veltroni e Sandro Curzi, del socialista Enrico Manca che si era consultato con Ugo La Malfa.
Non erano trattati bene i liberali come rilevato e criticato da Bruno Zincone e dal direttore de L’Opinione Arturo Diaconale e tanto meno i missini nonostante i loro exploit nelle Tribune politiche e sindacali. Poi fu imposta alla Rai la “par condicio” (spesso disattesa), che sarebbe dovuta essere applicata anche nei telegiornali, nel giornale radio e nelle trasmissioni di approfondimento.
Da quando la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha scalato Palazzo Chigi sono cresciuti gli “indignati a tempo alterno” della sinistra dopo aver beneficiato per anni di carriere di prestigio come quelle della giornalista Lucia Annunziata che è stata presidente dell’azienda di viale Mazzini nel 2003, direttore del Tg3 e conduttrice della trasmissione di Raitre “Mezz’ora in più”. Nella lettera di dimissioni confessa la sua militanza ideologica: “Non condivido nulla, ha scritto, dell’operato del governo né sui contenuti né sulla modalità dell’intervento sulla Rai”.
Strano ragionamento dopo 28 anni di Rai, con battaglie e scivoloni. Negli anni Settanta, prima di iniziare la carriera giornalistica al Manifesto, aveva fatto politica con Walter Veltroni, Fabio Mussi, Massimo D’Alema, Giorgio Amendola (tutti del Pci). Tra gli “indignati” a suo favore arriva anche il deputato del Pd Sandro Ruotolo, ex braccio destro di Michele Santoro e vicedirettore Rai.
Dopo non aver fatto nulla per trattenere il gruppo Fazio in Rai da 40 anni (2 milioni e 240mila euro di retribuzione a Fabio Fazio, più circa 800mila a Luciana Littizzetto e 120mila alla annunciatrice Marika Filippa Lagerbäck) si sono iscritti nell’elenco degli “indignati” anche la presidente Rai Marinella Soldi, il consigliere espressione dei lavoratori (appoggiato dalla Cgil) Riccardo Laganà e i vertici dell’Usigrai (che protestano: nomine inaccettabili).
L’azienda va avanti? Si vedrà come, ma deve uscire dall’impasse industriale (il piano e il contratto di servizio dovranno esser approvati a luglio) e confermare di essere la prima azienda culturale del Paese.
Aggiornato il 26 maggio 2023 alle ore 20:19