La maternità surrogata è vietata perché è sempre un male, non è un male perché è vietata

Brevi riflessioni a margine dell’intervento di Gustavo Zagrebelsky sulla maternità surrogata.

Su “La Repubblica” del 25 maggio 2023, Gustavo Zagrebelsky espone una sua articolata critica nei confronti della proposta di legge sul cosiddetto “reato universale” chiamato a sanzionare (oltre quanto già previsto dalla legge 40/2004) la pratica della maternità surrogata.

Il ragionamento di Gustavo Zagrebelsky si muove lungo quattro direttrici differenti.

In primo luogo: secondo il noto costituzionalista, la pratica della maternità surrogata, che per la maggior parte delle volte è a titolo oneroso, può essere sanzionata proprio per evitare “la riduzione d’ogni realtà dell’esistenza a merce commerciabile”, sebbene questo tipo di sanzioni non tenga conto del fatto che nei Paesi poverissimi la pratica della surrogazione a pagamento costituisce “l’occasione se non del benessere, almeno della sopravvivenza”.

In secondo luogo: la pratica della maternità surrogata non può essere ridotta soltanto alla sua dimensione commerciale, esistendo anche quella cosiddetta “altruistica” che si dovrebbe considerare sostenuta dalla stessa eticità e giuridicità di fondo che sorregge la donazione di organi.

In terzo luogo: sanzionare penalmente la pratica della maternità surrogata, sempre secondo Zagrebelsky, non tutelerebbe l’interesse del minore che in tale contesto dovesse nascere, poiché non si possono far pagare ai minori innocenti le eventuali responsabilità delle azioni degli adulti.

Infine: laddove il legislatore non dovesse porre in essere misure idonee alla tutela dei minorenni che deve essere bilanciata con l’interesse dell’ordinamento a sanzionare la maternità surrogata, sarebbe la Corte costituzionale a intervenire sul tema disciplinando motu proprio la questione.

Fin qui le tesi di Zagrebelsky, a cui, però non si possono non muovere dei rilievi critici che in ragione della loro complessità e articolazione devono necessariamente essere sintetizzati.

Per ciò che riguarda il primo spunto delle riflessioni dell’ex Presidente della Corte costituzionale almeno due puntualizzazioni sembrano opportune.

La circostanza per cui l’ordinamento intervenga con sanzioni penali per evitare che una parte della realtà, per di più la più intima, la più sacra come la maternità, la più archetipica delle fenomenologie relazionali della natura umana, non diventi un qualunque servizio commerciabile non rappresenta un immotivato irrigidimento normativo di un legislatore conservatore e legalistico, ma esprime la dimensione “minima” ed essenziale della giuridicità intrinseca di un ordinamento di uno Stato di diritto concretamente fondato sulla tutela della dignità quale cifra della persona, cioè di quella entità morale (e quindi giuridica) che per definizione è indisponibile (per legge, per contratto o per sentenza, come, infatti, testimonia la comune ratio di fondo del divieto della pena di morte, o del divieto di tortura, o del divieto di riduzione in schiavitù).

Ritenere inoltre che non si debba sanzionare la pratica della maternità surrogata poiché nei Paesi poverissimi essa è unica fonte di sostentamento per le donne significa introdurre il principio utilitaristico che dapprima si era escluso reputando fondata la sottrazione di parti dell’esistenza dalle categorie delle merci commerciabili.

Prendendola sul serio e seguendo la linea della medesima logica di Zagrebelsky, allora, si potrebbe legalizzare anche la vendita del sangue o del midollo osseo, o la vendita degli organi, e, perché no? Magari la vendita o l’affitto del voto elettorale.

E perché allora sanzionare certi tipi di attività e proventi della criminalità organizzata o delle associazioni mafiose nazionali e internazionali laddove esse, specialmente in certi territori poverissimi del meridione, storicamente costituiscono – in assenza della capacità dello Stato di creare adeguati mezzi di sussistenza – una rete economico-finanziaria in grado di permettere la sopravvivenza delle locali popolazioni?

Zagrebelsky dovrebbe dar conto, prima ancor di quelle etiche, di queste incongruenze logiche del suo pensiero.

Per ciò che riguarda la variante cosiddetta altruistica che Zagrebelsky caldeggia, includendola impropriamente all’interno delle cosiddette “donazioni samaritane”, tre profili sono da attenzionare.

In primis: la gratuità non è quasi mai presente nella pratica della maternità surrogata, come comprova l’ampia contrattualistica diffusa nei Paesi in cui è legalizzata e come altresì comprova anche e soprattutto il vastissimo e altamente remunerativo nonché prodromico e parallelo mercato mondiale della procreazione che si fonda su un fiorente scambio commerciale di embrioni o gameti, come attesta, per esempio, il mercato globale del liquido seminale che attualmente vale circa 4,74 miliardi di dollari con un trend in crescita del 5.2 per cento, verso i 4,86 miliardi di dollari che si prospetta raggiunga nel 2027.

Secondariamente, la gratuità non significa necessariamente autentica liberalità o sottrazione alla logica commerciale, poiché oltre lo strumento monetario ci potrebbero essere – come talvolta, infatti, ci sono – altre forme di corrispettivo per il servizio prestato dalla gestante (pagamento dei vestiti, dei farmaci, delle visite mediche e così da parte della coppia committente) che, come nel caso della permuta, renderebbero comunque a titolo oneroso lo scambio fra le parti.

In terzo luogo: non soltanto anche le cosiddette “donazioni samaritane” costituiscono un problema etico-giuridico non indifferente, ma la maternità surrogata certamente non rientra tra queste poiché le prime sono legate all’urgenza e alla necessità della tutela del diritto alla vita di chi riceve l’organo donato, mentre la seconda è priva di tali requisiti in quanto la coppia committente non è in pericolo di vita come chi attende un rene o un polmone.

Inoltre, le donazioni samaritane rappresentano una eccezione – nel quadro etico-giuridico di riferimento – al principio di indisponibilità del proprio corpo, mentre la maternità surrogata tende a diventare una pratica non eccezionale, ma comune e senza considerare peraltro che le pratiche di procreazione assistita – di cui la maternità surrogata inevitabilmente si serve – non sono mai del tutto esenti da rischi per la salute della donna, come è oramai e già da tempo ampiamente noto nella letteratura scientifica.

Insomma, la maternità surrogata e le donazioni samaritane sono due pratiche profondamente e radicalmente distanti e distinte, dal punto di vista pratico, scientifico ed etico e quindi anche giuridico.

Per ciò che riguarda l’interesse del minore chiamato in causa da Zagrebelsky, bisognerebbe distinguere l’ambito penalistico da quello civilistico.

La risposta penalistica, con la relativa sanzione apprestata dal legislatore, infatti, costituisce un presidio di tutela non soltanto nei confronti della donna, ma anche del nascituro o del nato tenendo focalizzato in massimo grado ben più del suo “semplice” interesse, ma il suo diritto di essere considerato per ciò che egli è, ovvero non una res di un contratto a titolo oneroso o gratuito, ma un soggetto di diritto munito di inviolabili diritti naturali, tra cui primariamente spicca il suo diritto di essere riconosciuto sempre e comunque come persona e non come qualcosa che può essere compravenduto, scambiato, permutato o consegnato.

In questo scenario si dovrebbe, inoltre, dar conto della sorte di quell’antico principio di diritto – base ordinata e ordinante per la certezza dello stesso ordinamento – della indisponibilità dello status personale.

Questo tema lega l’ambito penalistico a quello civilistico, per cui la mancata trascrizione degli atti di nascita stranieri per coloro che sono nati attualmente all’estero tramite le pratiche di maternità surrogata non rappresenta un abuso giuridico che l’ordinamento compie nei confronti dei minori non tutelando i loro interessi e facendo loro scontare le “colpe dei padri”, ma rappresenta l’applicazione del principio di coerenza logica e assiologica dell’ordinamento giuridico per cui non si può “sanare” civilmente qualcosa che non soltanto contrasta con norme imperative, ordine pubblico e buon costume, ma che per di più è intrinsecamente anti-giuridico poiché fondato sulla violazione del principio di indisponibilità dell’essere umano.

Si tratta di preoccupazioni – e non di ipocrisie – ben presenti anche ai giudici della Corte di Cassazione, che nella sentenza resa a Sezioni Unite, numero 38162/2022, si ribellano, proprio in nome della difesa della dignità della donna e del concepito, alla logica del fatto compiuto.

Dalle primissime battute, invece di recitare il mantra dell’impotenza del diritto interno di fronte alla violazione dei diritti umani e della priorità della cura dei minori hic et nunc (e pace per quelli che verranno) squarcia il velo, per la prima volta in un consesso di massima istanza, su quel che un Rapporto del 2019 del Consiglio per i diritti umani delle nazioni unite ha definito le “systemic abusive practices” del mercato della discendenza: “Nella gestazione per altri non ci sono soltanto i desideri di genitorialità, le aspirazioni e i progetti della coppia committente. Ci sono persone concrete. Ci sono donne usate come strumento per funzioni riproduttive, con i loro diritti inalienabili annullati o sospesi dentro procedure contrattuali. Ci sono bambini esposti a una pratica che determina incertezze sul loro status e, quindi, sulla loro identità nella società”.  (…)

In questo contesto, il richiamo al significato oggettivo della principio-dignità da parte di S.U. 38162/2022 è insieme un esercizio di umiltà e una professione di fiducia nella forza del diritto: “Il nostro sistema vieta qualunque forma di surrogazione di maternità, sul presupposto che solo un divieto così ampio è in grado, in via precauzionale, di evitare forme di abuso e sfruttamento di condizioni di fragilità”” (Così Valentina Calderai, in “Back to the basics. Indisponibilità dei diritti fondamentali e principio di dignità umana dopo Sezioni Unite n. 38162/2022, in Giustiziainsieme, 15.3.2023).

Infine, emergono le difficoltà del monito lanciato da Zagrebelsky in riferimento all’intervento della Corte costituzionale.

Proprio un costituzionalista dovrebbe inorridire dinnanzi alla eventualità che la Corte costituzionale decida di sostituirsi al legislatore, come sempre più spesso accade e che la qualifica, soprattutto dal caso della celebre sentenza numero 242/2019 sul caso Cappato, più come un secondo organo del potere legislativo che come vertice del potere giurisdizionale.

Da tempo immemore, senza dubbio, si discute del cosiddetto “creazionismo giudiziario”, della sua legittimità, della sua portata, della sua effettività, ma la sua diffusione non può automaticamente coincidere con la sua legittimazione, specialmente quando esso riguarda temi eticamente sensibili su cui peraltro il Parlamento si è già espresso e intende ancora esprimersi esercitano – pur con tutti i suoi limiti e difetti – le sue naturali funzioni.

Se il “colonialismo giudiziario”, di cui la Corte costituzionale si è oramai resa protagonista principale – con la copertura di certa dottrina – è ciò che davvero Zagrebelsky si augura, sarebbe più coerente, più intellettualmente avvincente e più giuridicamente corretto che elaborasse una nuova teoria della commistione dei poteri e che disegnasse una nuova architettura istituzionale e costituzionale in cui si può, e perfino si deve, fare a meno del Parlamento i cui compiti sarebbero esclusivamente assorbiti dalla magistratura in genere e dalla Corte costituzionale in particolare.

Le tesi di Zagrebelsky, nonostante la sua autorevolezza, sono dunque da rigettare nel merito e nel metodo, ricordando peraltro, in conclusione, che spesso – come nel caso della maternità surrogata – una pratica non è un male perché è vietata, ma, semmai, è vietata proprio perché è un male.

 (*) Tratto dal Centro Studi Rosario Livatino

Aggiornato il 26 maggio 2023 alle ore 16:10