Non ci sono più i ciclisti di una volta

Malgrado la pandemia da Coronavirus sia ufficialmente finita, al Giro d’Italia ne stanno succedendo di tutti i colori. Seppur siano caduti tutti gli obblighi e le restrizioni anti-Covid (è stata reintrodotta la demenziale mascherina tanto per fare qualcosa), un crescente numero di concorrenti, compreso il favorito Remco Evenepoel, ha abbandonato in fretta e furia la corsa rosa solo a causa di una positività al tampone. Tampone non richiesto dagli organizzatori, bensì da un eccesso di scrupolo che ha pervaso la maggior parte delle squadre partecipanti. Sta di fatto che, con zero sintomi o, al massimo, con un leggero raffreddore, fior di campioni hanno abbandonato la nostra prestigiosa corsa a tappe, seconda per importanza solo al Tour de France.

E che si tratti di una suggestione delirante – mi si passi la definizione – di cui buona parte dell’informazione occidentale ha una grande responsabilità, lo dimostra il vero e proprio terrore espresso dallo stesso Evenepoel, dopo aver vinto la cronometro di domenica scorsa e, prima del tampone, in conferenza stampa. In sostanza, il campione belga aveva detto di avere il naso chiuso e di voler stare attento a non ammalarsi o prendere il Coronavirus, da lui definito “quel virus che non voglio nominare”.

Un virus che, per la cronaca, non è mai stato un problema per i giovani sportivi come il 23enne golden boy del ciclismo, neppure nelle sue forme più aggressive, visto che già nella prima indagine sierologica effettuata in Italia, in quel di Vo’ Euganeo nella cupa primavera del 2020, circa il 96 per cento di una popolazione giovanissima è risultato asintomatico o paucisintomatico. Di fatto, con un virus endemico, ossia presente in modo diffuso nella società umana, l’idea di impedirne la diffusione presso un luogo affollato qual è la carovana del Giro risulta semplicemente folle, allo stesso modo della follia di lasciare una corsa meticolosamente preparata a causa di un volontario tampone autolesionistico.

A tal proposito, onde comprendere quanto siano cambiati i tempi negli ultimi decenni, vorrei concludere il mio articolo con la testimonianza di un grande campione di un ciclismo epico: il toscano Fiorenzo Magni. Terminando il suo ultimo Giro d’Italia al secondo posto – ne vinse ben tre – nonostante due rovinosi infortuni, disse: “Al Giro del ’56 sono caduto nella discesa di Volterra e mi sono fratturato la clavicola. Non puoi partire, mi dice il medico. Io lo lascio parlare e faccio di testa mia: metto la gomma-piuma sul manubrio e corro la crono. Poi supero gli Appennini. Ma provando la cronoscalata di San Luca mi accorgo di non riuscire nemmeno a stringere il manubrio dal dolore; allora il mio meccanico, il grande Faliero Masi, decide di tagliare una camera d’aria, me la lega al manubrio e io la tengo con i denti, per non forzare le braccia. Il giorno dopo, nella Modena-Rapallo cado di nuovo e mi rompo anche l’omero. Svengo dal dolore. Sono sulla lettiga quando riprendo coscienza e ordino a chi guida l’ambulanza di fermarsi. Mi butto giù, inseguo il gruppo, lo riprendo e arrivo sul Bondone sotto una tormenta di neve. Per questo gesto Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello, che seguivano il Giro, mi ribattezzarono Fiorenzo il Magnifico”.

Ebbene, tutto questo, in confronto a ciò che oggi sta accadendo al Giro per un virus banale, con la fuga in massa di atleti super controllati sotto ogni aspetto, non può che farci concludere che non ci sono più i ciclisti di una volta, neppure in fotocopia.

Aggiornato il 19 maggio 2023 alle ore 12:14