Non è affidamento, ma abbandono

Ventiquattro secoli fa Gorgia da Lentini notava come fra l’uomo e la parola l’esito della contesa fosse segnato: più forte è la parola perché, agendo come un farmaco, è in grado di provocare dolore o diletto, di indurre paura o di suscitare coraggio, perfino di avvelenare l’anima e di stregarla “con qualche persuasione perversa”.

Orbene, la frattura fra parola e realtà – in forza della quale la parola da un lato dice, ma dall’altro nasconde – è ben percepibile anche oggi in modo chiaro e distinto. Basta far caso a quanto affermato da Silvia Avallone, scrittrice pluripremiata e cavaliere della Repubblica, da Barbara Gubellini, conduttrice televisiva e da diversi altri a proposito della recente vicenda di cronaca che ha visto una madre abbandonare il suo neonato presso la culla termica della clinica Mangiagalli di Milano, non senza accludere una lettera di amorosi sensi.

Tutti costoro, infatti, sostengono che non si è trattato di abbandono, ma di un “affidamento”, in quanto il piccolo non sarebbe stato lasciato in un bosco, al buio e al freddo, o in altro luogo pericoloso – come chiarisce Avallone – ma sarebbe stato appunto affidato alle cure amorevoli del personale della Mangiagalli.

Qui, essendo “abbandono” e “affidamento” le parole chiave del discorso, si vede subito la veridicità della lezione di Gorgia, in quanto esse vengono usate in modo totalmente avulso dalla realtà. Infatti, una madre abbandona il proprio figlio nel momento stesso in cui mette in opera il distacco dalla propria persona, indipendentemente dal luogo dove lo abbia riposto, sia pure in una culla termica, dal momento che l’amore e la cura materni non sono surrogabili da nulla e da nessuno, non essendo né il primo né la seconda atti neutri a disposizione di tutti, ma espressioni profonde della persona: e le madri – quali persone – non sono intercambiabili.

Anche se il piccolo fosse stato deposto fra le braccia di un Re, disposto a colmarlo di attenzioni e di coccole senza badare a spese, ugualmente egli si sarebbe sentito abbandonato dalla madre. Non occorre scomodare la psicologia del profondo, per capire che ciò che unicamente chiede un neonato, dopo aver abitato per nove mesi nel corpo della madre, aver respirato del suo respiro, essersi nutrito del suo nutrimento, è soltanto di tornare in lei e comunque di non esserne indebitamente allontanato.

Sicché, non v’è crudeltà più grande di questa: operare il distacco fra chi viene alla vita e chi quella vita ha propiziato, custodito e permesso. Per altro verso, la salutare lezione della realtà impone di non poter chiamare “affidamento” l’atto di deporre un neonato in una culla termica. Infatti, ogni affidamento viene in via preliminare escluso dall’abbandono in cui esso qui si sostanzia; inoltre, ogni affidamento suppone che l’affidante possa vantare un rapporto privilegiato fatto di conoscenza personale, di abitualità, di stima con l’affidatario: ipotizza un rapporto umano fra i due, senza il quale non esiste alcun affidamento reale, ma soltanto il triste dileguare dell’amore.

È impossibile “affidare” un neonato a una struttura impersonale quale una casa di cura, sia pure organizzata quale la Mangiagalli, per il semplice motivo che qui l’affidatario, non essendo un essere umano, non può essere in alcun modo destinatario di fiducia, che invece è un sentimento personalissimo sia dal versante di chi la dà, sia da quello di chi la riceve: la fiducia si ripone sempre in una persona, non in una cosa; e una clinica, pur efficiente, non è una persona.

Abbiamo dunque qui la riprova di come le parole adoperate mettano in essere una pericolosa ipocrisia semantica capace di alterare il senso effettivo della realtà e di “stregare” l’anima alla maniera di Gorgia, facendo intendere ciò che non è e che non può essere. E si è arrivati a lodare questa madre per il suo “atto d’amore”, consistito, paradossalmente, nell’aver abbandonato il suo piccolo in una culla termica, invece che aver abortito o averlo lasciato in strada. Sarebbe come lodare un ladro perché, dopo aver eseguito il borseggio, ha abbandonato il portafogli svuotato dei contanti, permettendo il recupero dei documenti alla vittima: una cosa del tutto priva di senso perché fuori dalla realtà.

Peggiora il quadro di insieme di un dibattito pubblico ormai surreale, perché le parole hanno perduto il loro autentico significato, il maldestro (a dir poco) tentativo di Avallone di giustificare l’abbandono del piccolo, ricordando che i genitori non sono i padroni dei figli e che essi li mettono al mondo per consentirne l’allontanamento e la vita autonoma.

Già. Peccato che ciò sia verissimo per i figli ormai cresciuti e capaci di orientarsi nel mondo, ma lo sia molto meno per un neonato di pochi giorni: sicché vien da chiedersi di cosa e come scriva la Avallone quando scrive. Sarebbe bastato che la madre chiedesse aiuto a uno dei molti centri per la vita pubblici e privati. Ma così non è stato. Perché?

(*) Tratto dal quotidiano La Sicilia

Aggiornato il 18 aprile 2023 alle ore 11:26