Lavoro stagionale: l’orgoglio di un tempo che non torna più

Sarà anche il tempo, più da novembre che da aprile (riscaldamento acceso ancora a metà mese), ma Cervia e Milano Marittima, dopo l’effimera “calata” pasquale, appaiono dimesse, raccolte, come i piccoli paesi di riviera d’inverno: per quel che mi riguarda, sono migliori da vivere. Per questo, trovo piacevole trascorrervi ogni mese dei giorni di sonnolento lasciarsi andare. Così vai per piccole, quotidiane incombenze a cui ti dedichi senza affanni. Quello che colpisce è qualcosa che potrebbe/dovrebbe costituire materia d’indagine per sociologi e affini.

C’è forse, almeno dove mi trovo, un’offerta di hotel, alberghi, pensioni superiore alla effettiva domanda. E anche i locali: non molti, ormai, i ristoranti decenti. C’è più un fiorire di pizzerie e ritrovi, che offrono ogni tipo di bizzarria culinaria. Nelle vetrine una quantità di cartelli con richiesta di personale, perfino certi baracchini di piadine chiedono “aiuti”.

È sicuro che sia un lavoro stagionale. Ovvio che si lavorerà con i ritmi che impone una stagione estiva. Molti saranno impieghi in “nero”, ma non tutti: immagino che ci sarà pure qualcuno che offra lavori retribuiti come è giusto, con le dovute, legali, garanzie. Come mai, chiedo a più d’uno. “Non si trova personale”. Personale qualificato? “Non necessariamente. Persone che siano disposte a lavorare e basta”.

Era così anche negli anni passati? Forse sì, anche in passato, esclusi gli anni del Covid, c’era più “offerta” che reale “domanda”. Ma non ricordo tante richieste di personale come oggi. Forse non ci ho fatto caso. Anche negli anni precedenti, ci si affannava a cercare aiuti negli stabilimenti per pulire spiagge e riporre ombrelloni, lavare i piatti in cucina, rifare i letti dei villeggianti, i commessi nei negozi. Se è così, l’interrogativo acquista maggior ragione d’essere: come mai si fatica a trovare persone per questi lavori stagionali? Un tempo, molti anni fa, erano ragazze e ragazzi che in quel modo raggranellavano qualche lira. Ora, mi dicono, chi si presenta spesso sono pensionati che “arrotondano”, loro per primi contenti di lavorare in “nero”.

Da ragazzo, quando ancora ero studente, per alcune estati ho lavorato come stagionale in uno zuccherificio: operava a ciclo continuo, i turni a rotazione mattina, pomeriggio, notte, almeno da giugno a settembre. Si era quasi tutti studenti: in questo modo ci si pagava il resto dell’estate, quando s’andava al mare terminato il lavoro. Conservo incorniciata la prima busta paga. Erano 86mila lire, qualifica “operaio specializzato”. Si trattava di pulire, più o meno ogni ora, le “spazzole” che sminuzzavano le bietole, liberarle dal fango e dai detriti. Non che la mia famiglia mi abbia mai fatto mancare nulla. Necessario e superfluo che fosse, sono stato fortunato. Però, è stata una esperienza che hanno voluto che facessi. E di questo sono grato.

Non voglio dire che i miei erano tempi migliori; diversi, certamente sì. Ogni tanto, quella prima busta paga me la guardo con una certa fierezza, come quella del primo guadagno di giornalista, prova tangibile di un sogno da sempre coltivato, che si realizzava. Ora vedo i tanti cartelli che chiedono personale. E mi domando: ma quel mio orgoglio è davvero passato di moda? E perché, come mai?

Aggiornato il 17 aprile 2023 alle ore 11:35