Leggo che il Tg1 nelle prime settimane di quest’anno ha perso qualcosa come 634.384 ascoltatori: l’11,11 per cento. Non va meglio al Tg2: 20,22 per cento in meno. Il Tg3 perde il 12,09 per cento. Il Tg de La7 registra un meno 12,12 per cento; il Tg5 si è giocato il 5,59 per cento; il Tg4 l’11,82 per cento.
Tante le ragioni: basta un telefonino o un computer e si ha l’impressione di avere il mondo in tasca. Ma è anche un alibi; forse se le 13 (o le 13,30) o le 20 (o le 20,30) non sono più appuntamenti “sentiti” come un tempo, le ragioni sono anche altre, sarebbe il caso di spenderci qualche riflessione, soprattutto su chi ci lavora. Nel loro interesse.
Indiscutibilmente i Tg, un po’ tutti, sono fatti male, sciatti: i contenuti sono opinabili, ognuno ha i suoi gusti, anche se è difficile contestare che la sfilata di gné-gné da parte di tutti i politici, che spiegano quello che si deve fare e non raccontano quello che hanno fatto, sia stucchevole, noiosa. Un buon contributo, questo, al distacco tra classe politica e cittadini (è vero che sono votati, ma è pur vero che un buon 50 per cento di chi ha diritto al voto, rinuncia e li respinge in blocco).
C’è una carente qualità tecnica e quella, alla lunga, presenta il conto. La sempre più raffinata tecnologia, con grandi potenzialità che un tempo ci si sognava, non sopperisce alla mancanza di tecnici-artigiani di una volta. È sempre più difficile imbattersi in servizi cool, in grado di appassionare, indignare, commuovere. Sono servizi privi d’anima. L’anima è un mix di intuizione e sapienza giornalistica che si fonda con il gusto dell’immagine e la maestria del montaggio. Sempre più i servizi sono impeccabilmente freddi, freddamente impeccabili. Noiosi. Statici. Una quantità di collegamenti e bla-bla a non finire. E nessuna inchiesta che si possa chiamare tale. Mai interviste, mai una domanda. Dichiarazioni a raffica propinate con il bilancino del farmacista.
Persone di nessuna esperienza televisiva sono nominate alla guida di aziende che vengono governate come se si trattasse di un negozio di alimentari: tre etti di prosciutto, due mozzarelle. Una grande responsabilità grava su chi è stato collocato in ruoli apicali e dirigenziali. Vedi le attese nomine in omaggio ai nuovi equilibri politici: tranquillamente, si indicano i futuri direttori e responsabili di settore senza darsi la minima pena di qualificarli per i loro meriti professionali. Saranno direttori o non lo saranno più solo perché godono della fiducia del politico A o del politico B. Mortificati i leali, premiati i fedeli. Si dirà che è così da sempre. Non è vero.
C’è stato un tempo in cui la Rai era feudo democristiano e fanfaniano, in particolare. Poi con la seconda rete la componente laico-socialista trova lo spazio dove esprimersi. Infine, con la terza si accontentano gli appetiti dei comunisti. Si guardino comunque i servizi di quei tempi. Se non ci sono più gli equivalenti dei Sergio Zavoli, dei Carlo Mazzarella, degli Arrigo Petacco, dei Joe Marrazzo (sono solo i primi quattro che vengono in mente), una ragione ci sarà.
Non è colpa o responsabilità degli smartphone o dei computer che bruciano la notizia. Più che mai oggi la comunicazione televisiva è questione di democrazia, libertà, conoscenza. Almeno questo è quello che pensa un divoratore, un tempo, di telegiornali che, ultimamente, ha scoperto di non aver più alcuna voglia di guardarli (e peccato per quella esigua pattuglia di buoni professionisti, che ancora sopravvive e resiste).
Aggiornato il 31 marzo 2023 alle ore 11:19