Carceri: la strage continua

Proviamo a immaginare la scena. Siamo nel carcere di Bollate. Sono le tre del pomeriggio. Un detenuto di 34 anni cerca di togliersi la vita impiccandosi. Quasi ce la fa, non fosse che all’ultimo minuto gli agenti della polizia penitenziaria si accorgono di quello che accade. L’uomo viene portato in codice rosso all’ospedale Niguarda di Milano. I medici parlano di condizioni critiche.

La vigilia di Capodanno, a Pavia, un altro detenuto di vent’anni tenta anche lui di impiccarsi. Anche lui viene portato in codice rosso al Policlinico, ma è troppo tardi: il detenuto è prima in coma, poi muore. Sempre a Pavia, altri cinque detenuti sono “evasi” in questo modo tragico e definitivo.

Il cappellano del carcere, don Dario Crotti racconta che il detenuto gli era stato segnalato come persona molto fragile e aveva cercato di instaurare con lui un minimo di rapporto: “Purtroppo non è stato sufficiente. Ricordo che era un ragazzo molto educato, che non aveva mai dato problemi al personale. C’è un disagio notevole che vale anche per il personale purtroppo abituato a lavorare in condizioni non facili. Guardiamo a quello che è successo, nei giorni scorsi, all’Istituto Beccaria di Milano con la fuga dei 7 ragazzi. Da anni in un istituto così importante non c’è un direttore stabile e sempre da diversi anni ci sono lavori in corso. Non è possibile portare avanti un lavoro importante a favore dei detenuti in quelle condizioni”.

Lo sfogo prosegue: a cosa serve un regime carcerario in cui i detenuti si tolgono la vita o accrescono il loro disagio? Che senso hanno carceri stracolme? Perché non optare per pene correttive e di segno diverso? Perché non fare tesoro delle tante virtuose esperienze attuate dal volontariato sociale per favorire un pieno recupero di chi ha perso la strada?

Negli ultimi dieci anni ufficialmente si sono tolti la vita qualcosa come 583 detenuti, per non dire degli agenti della polizia penitenziaria, anche loro costretti a lavorare in condizioni di logorio fisico e psichico intollerabili; senza considerare le migliaia di tentati suicidi; senza tener conto delle migliaia di gesti di autolesionismo. Solo quest’anno gli 80 e passa suicidi sono il numero più alto da decenni, ancora più allarmante se si considera che ora i detenuti sono molti meno che dieci anni fa.

L’ufficio del Garante nazionale dei detenuti ha realizzato uno studio sul fenomeno dei suicidi in carcere, andando oltre la conta. Si sono incrociati gli elementi ricorrenti, l’età, condizioni le fragilità personali o sociali di partenza, la posizione giuridica dei suicidi. Se ne ricava che le condizioni della vita detentiva o la durata della pena ancora da scontare o della carcerazione preventiva non sempre sono determinanti nella scelta di un detenuto di togliersi la vita.

Più della metà dei suicidi si sono verificati nei primi sei mesi di detenzione; nove addirittura entro le prime 24 ore. La metà erano in attesa di una sentenza definitiva. È evidente che occorre individuare fin dall’inizio le persone con problematiche da dipendenza o con patologie psichiatriche o rischio di autolesionismo.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo messaggio di fine e inizio anno ha dettato una vera e propria agenda politica per la classe politica e il Paese. Per qualche ragione che ignoro, il tema della giustizia e del carcere non è stato sfiorato. La condizione dei detenuti nelle carceri italiane è però una questione ineludibile, e il Governo Meloni voglia o no, la dovrà affrontare, certamente non con i toni belluini e miopi oltre che disgustosi dell’“è finita la pacchia”, come usa dire qualche leader di partito e ministro alla perenne caccia di un facile consenso che peraltro gli viene meno giorno dopo giorno.

Aggiornato il 09 gennaio 2023 alle ore 16:40