“Lillio” Sforza Ruspoli: la morte e la storia

La morte del Principe “LillioSforza Ruspoli l’apprendo con dispiacere. Non eravamo amici ma ci frequentavamo da decenni, specie in convegni organizzati a Palazzo Ferrajoli – a Piazza Colonna, Roma – dall’editore Luciano Lucarini, dove spesso parlavo, pure in altre circostanze, se ben ricordo, anche quando ancora viveva l’editore Giovanni Volpe, ingegnere, figlio dello storico nazionalista, Gioacchino.

Fui suo ospite nella magione a largo Goldoni, vicino via del Corso. L’occasione, credo, fosse un convegno organizzato da Gian Paolo Cresci e poi eravamo saliti dal Principe Ruspoli. Incredibilmente, ci vedemmo in Cina. Sforza Ruspoli viaggiava con la giovane e bella consorte, Pia Giancaro. Quando si accorse di noi italiani, ci offrì le sue cortesi disponibilità, ne avessimo avuto bisogno. Nel 1983 la Cina repelleva. Quando la rivisitai, decenni successivi, restai con il naso all’aria, sbalordito. Conoscessimo ciò che accade nel mondo, saremmo più quieti.

Mi recai nell’abitazione del Principe Sforza Ruspoli, perché Gian Paolo Cresci era sovraintendente all’Opera di Roma. Io dirigevo l’Università della Terza Età, fondata da Cresci. Seguivo l’Opera, dopo un concerto o altro di Giuseppe Sinopoli, il Principe e la consorte erano frequentatori. Ci recammo da Sforza Ruspoli. Era un aristocratico nel senso storico del termine, il proprietario terriero, il feudatario. Padrone e contadini, operai e borghesi non gli stavano in mente, non esistevano. Questo ovviamente lo rendeva cattolicissimo, addirittura con il potere temporale del Papato. Obbedienza assoluta al Pontefice, una Santa nella Sua famiglia, diciamo, Giacinta Marescotti, manteneva quello che in fondo è il residuo della nostra esistenza in epoca di nichilismo egualitarista. La “signorilità”, il comportamento dignitoso: non è che ci resti altro nei comportamenti sociali e privati, almeno la piccola etica, l’etichetta. La “forma” non esiste, anche nella comunicazione. E la “forma” è l'essenza del rispetto, della valorizzazione vicendevole.

In Sicilia, quando ero ragazzino e vivevo lì, dicevano “è un signore, Tizio è un signore”. Poteva essere poverissimo, non importava: era un “signore”. I critici dell’aristocrazia, specie nel XIX secolo, hanno scovato dentro la signorilità sottomissione, predazione. Ed è anche vero, una disgraziatamente sottomissione e predazione si sono mantenute, persino accresciute, ma non la signorilità, lo spirito aristocratico. E così abbiamo il nichilismo completo. Non si ha idea di che cosa fosse la ritualità del mondo aristocratico, il rango, la distanza sociale, il rispetto (con le nefandezze che potevano mascherare, sia chiaro, ma che avvengono oltre l’epoca aristocratica).

Quando ero ragazzo fui compagno di classe dai Gesuiti di Ferdinando Salleo, futuro ambasciatore a Washington e Mosca, nipote di Gaetano Martino, cugino di Antonio Martino, amico. Ferdinando mi invitò, insieme al compagno di studi Giuseppe Russotti, che a quel tempo possedeva i traghetti, a Villa San Giovanni. Ci invitò nel castello baronale di Sinagra. Ricordo il modo in cui i domestici si rivolgevano a noi: il “signorino”, come erano vestiti, la livrea specifica del casato, lo stesso da Ferdinando, a Messina.

Mia madre teneva moltissimo alla sua piccola nobiltà. Aveva fatto di tutto per avere i quadri di coloro che giudicava suoi antenati. E quasi novantenne scrisse le memorie, raccontando la giovinezza di una minima aristocratica nel collegio delle monache, ma suo padre era un “Don”. Non credo fosse barone. Un signorotto, un tardo feudatario con il palazzo lacerato al centro del Paese, Gualtieri Sicaminò, sciaguratamente distrutto che a vedere l’edificio comunale che lo sostituì mi parve un taglio al cuore della mente!

Una volta udii un colloquio del Principe Sforza Ruspoli con Filippo de Jorio, anch’egli di nobilissimo casato. E di cosa parlavano? Pareva che Filippo de Jorio, come dinastia, avesse origine qualche secolo prima del Principe Sforza Ruspoli. Filippo de Jorio credo che avesse qualche secolo di antichità in soverchio. Nel corridoietto del palazzetto del padre di mia madre vi erano delle antiche spade, che adesso possiedo. Che dire? Il passato, la storia, la civiltà, la memoria. Non che bisogna essere aristocratici per contenerli. Si “diventa” aristocratici conoscendo e amando quanto c’è da amare del nostro passato. Siamo natura e storia. Se perdiamo un aspetto, ci amputiamo. Se perdiamo entrambi, siamo finiti. E può accadere.

Una volta, non ricordo l’occasione, ci recammo nel castello del Principe Sforza Ruspoli, a Vignanello. Che spettacolo: mura spesse, inferriate muscolose, torrioni, cortiletto interno, un Medioevo assolutizzato. Forse non ci rendiamo conto di chi siamo, di “chi è” l’Italia. Ah, sì: l’aristocrazia nel suo egocentrismo dinastico glorificava la Nazione. L’Italia, non l’avessimo avuta, perderebbe la massima arte del pianeta. Quando vedevo il Principe Sforza Ruspoli, e parlavamo, lo percepivo come individuo e come “storia”. Assolutamente, il futuro, il divenire. Ma come il mare, l’onda dietro che sospinge. Che possiamo fare, se non ricordare noi stessi a noi stessi. E ricordarla, Principe “Lillio” Sforza Ruspoli! XIII secolo! Oggi.

Aggiornato il 29 ottobre 2022 alle ore 21:48