Ipocritamente Rai

Giorgia Meloni è alla guida del Paese. Non solo: nelle comunicazioni ufficiali il primo premier donna della storia della Repubblica italiana sceglie il maschile, ossia la dicitura “il presidente del Consiglio”. Non la presidente o presidenta o chissà quale altra diavoleria linguistica suggellata da sperimentatori di una comunicazione figlia di questi tempi (moderni ma malconci).

Il caso – che non è un caso, se non per qualche esteta senza meriti sportivi – si potrebbe chiudere qui. Ma siamo in Italia e il clima dell’ottobrata romana non basta per invitare i più a organizzare gite fuoriporta, evitando di dover trovare per forza un qualsivoglia tipo di polemica. Ecco quindi l’Usigrai (Unione sindacale giornalisti Rai) che sta inondando le mail dei suoi iscritti, puntualizzando come comportarsi con il linguaggio di genere. Con tutti i nodi aziendali, questo è il problema principale. Perché – come recita l’adagio – quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito.

In tale buio ideologico, una tazza di buonsenso la serve Claudio Marazzini – presidente dell’Accademia della Crusca – che all’Adnkronos dice: “Chi invece preferisce le forme tradizionali maschili ha comunque diritto di farlo, secondo l’opzione che fu a suo tempo di Giorgio Napolitano (che preferiva “il presidente della Camera” anche se era una donna, Laura Boldrini), e come la stessa presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, che scelse il maschile non marcato. Chi vuole interpretate il maschile non marcato come un errore di grammatica, commette un eccesso. Si tratta solo di una preferenza linguistica, magari ormai minoritaria, dettata dall’appartenenza anagrafica a una diversa generazione, o dettata da una cosciente scelta ideologica (una scelta che, di per sé, non vedo come possa essere messa sotto accusa quale fosse un errore grammaticale)”.

Tutto finito? Manco per niente. Perché in tale stallo alla messicana interessante quanto un pensiero di Enrico Letta, chi non vuole mollare l’osso è proprio l’Usigrai, che sostiene come in “molte testate” della Rai si starebbe assistendo a un arretramento (a-r-r-e-t-r-a-m-e-n-t-o). In sostanza, le direzioni stanno chiedendo ai giornalisti di usare il maschile per indicare il nuovo incarico di Meloni (cosa che chiede lei, va sempre ricordato. Sia fatta la sua volontà, no?). Basterebbe questo per i titoli di coda. Sì, lallero: l’Usigrai, dall’alto della sua cattedra, specifica che il racconto giornalistico è un’altra cosa e che la policy di genere aziendale, da poco approvata dal Consiglio di amministrazione della Rai, indica di utilizzare il femminile dove esista.

Infine la chiosa: “Nessun collega può essere dunque obbligato a usare il maschile, anzi i giornalisti Rai sono tenuti a declinare al femminile i nomi”. Quest’ultimo passaggio, poco-poco, non è un obbligo? E il trasgressore/la trasgreditrice che fine fa? Viene rinchiuso/a in qualche stanza famosa, a quanto pare, per l’indice di flatulenza?

Tappiamoci il naso, incrociamo le dita e cantiamo “w la Rai, dimmi da quale parte stai?”. Quella dell’ipocrisia, occhio e croce.

Aggiornato il 25 ottobre 2022 alle ore 10:16