Perché una giornalista affermata colpita da un tragico lutto sceglie di affidare le sue memorie alla carta? Perché un lettore informato dovrebbe leggerne il contenuto? Per scoprire i segreti? Per essere coinvolto nel dolore implacabile di una madre smarrita e ignara?

Inizia così la presentazione del mio libro nella sinossi pubblicata in quarta di copertina. Ci ho messo dodici anni a scrivere queste 383 pagine. Sono stati dodici anni intensi, di dolori, fatiche, ma anche di una crescita personale e intellettuale elevata. Questo libro, lo ammetto, è servito soprattutto a me. Avevo bisogno di capire, di fare chiarezza, di giustificarmi, che non vuol dire cercare scuse. Di fronte a una mole enorme di risentimento, fino quasi a sentirmi “responsabile” della fine di mio figlio, dovevo trovare in me la verità. E come si trova la verità? Questo libro è anche il frutto di un metodo, che mi ha portato molto al largo. Non sapevo all’inizio che avrei navigato negli scogli e tra i mari della nostra Repubblica fino a rivivere passaggi e momenti cruciali. Per trovare una spiegazione a quel “perché” insistente che mi rivolgevano tanti, chi in modo compassionevole e chi con tono austero e minaccioso, ho dovuto difendermi. Intanto mi dicevo: “chissà Jacopo”. È vero che un figlio è sempre un figlio, ma se lui avesse potuto parlarmi cosa mi avrebbe detto seduto dall’altra parte della vita, su uno scoglio, di fronte a quel mare che tanto amava e su cui veleggiava felice e ignaro?

Così è iniziata la mia ricerca. E da giornalista ho messo in fila carte, documenti, ho fatto ricerche, ho letto, ho pregato, sì pregato, perché alla fine “lui”, mio figlio, di là mi diceva sempre “non basta”, “di più”. Cosa? Salvarlo, riscattarlo, chiedere io perdono? Anche me lo avesse chiesto, in modo categorico, col dito puntato, sarebbe bastato? La verità, quella dell’anima scavalca tutto. Da qui inizia il libro, come ho scritto nella premessa. E ho abbandonato l’idea di farne “il mio libro”, “il mio romanzo”, “la mia indagine”, ma ho cercato di tessere tutti questi fili in una trama unica. Per te Jacopo. E così mi rivolgo a voi, lettori, familiari, amici, conoscenti, tutti coloro che avrò la fortuna di incontrare nella pagina.

Ho scritto, dunque, questo libro per mio figlio, per dargli verità, me lo impone il mestiere, in quanto la sua tragica fine, avvenuta nelle prime ore di domenica 11 aprile 2010, non è stata mai raccontata. Sui giornali e sui media sono stati riportati, nell’imminenza dei fatti, succinti elementi di cronaca relativi a un incidente automobilistico senza apparenti cause, senza frenate e senza coinvolgimento di altre auto. Tanti hanno saputo che Jacopo è deceduto in un fatale ribaltamento alla guida della sua minicar. Ma non è esatto. Il fascicolo relativo alla sua morte, iscritto alla Procura di Roma nell’immediatezza dell’evento, è stato oggetto di indagini con questa dicitura: per il reato di cui all’articolo 589 c.p.. Cioè: “omicidio colposo”. E non solo in relazione all’incidente.

Ai nostri giorni i cimiteri sono diventati luoghi della memoria scarni e solitari. Non erano così. Quando ero piccola, in occasione delle ricorrenze, mia madre ci portava non solo a onorare i nostri defunti, ma anche a mettere un fiore a uno sconosciuto. Ricostruivamo le genealogie, indovinavamo i gradi di parentela e mamma citava quel passo dei “Sepolcri” in cui Ugo Foscolo spiega che, in un mondo in continuo divenire, solo la “celeste corrispondenza di amorosi sensi” assicura l’immortalità. Per questo il linguaggio trascendente mi è familiare. Ma un mattino, che mi ero recata in visita alla tomba, è stato come se la frase posta sulla lapide di un vicino mi chiamasse, volesse dirmi qualcosa. “Parla mamma, parla di me”, sentivo nel cuore. Pensavo: povero Jacopo, così giovane in questo posto di uomini, donne anziani. Hai ragione, gli dicevo. Cosa può fare una madre giornalista se non scrivere?

Perché il buon Dio avrebbe dovuto far morire per sempre un ragazzo così giovane, bello, buono, generoso, nel pieno dei suoi splendenti diciassette anni? Io non credo alla morte, credo alla vita!
Nessuno muore sulla terra finché vive nel cuore di chi resta”, ecco la frase che ha scatenato un diluvio di lacrime convertite in ragione e verità. Spero sia anche un conforto per le madri che perdono i figli. Anni prima avevo letto in quel capolavoro del premio Nobel per la Letteratura Gabriel García Márquez, “L’amore ai tempi del colera”, questo concetto: “È la vita, più che la morte, a non avere limiti”. E che sia una straordinaria intuizione lo ha confermato anche Papa Francesco in un discorso rivolto alle autorità colombiane citando il “tenace vantaggio della vita sulla morte”.

Jacopo apparteneva a una famiglia da parte di padre molto nota, i Fanfani, la famiglia dell’insigne democristiano Amintore Fanfani. Jacopo era dunque anche Jacopo Fanfani ed era l’ultimo nipote. Io sono una giornalista conosciuta. Ma in particolare in quei giorni gravava sulle nostre vite una vicenda clamorosa, che aveva messo me – e di conseguenza lui – al centro di roventi polemiche. Una vicenda tutt’altro che datata e che viene riproposta regolarmente, ma che sin qui ha sempre e solo poggiato su una versione. Alla fine della lettura mi chiedo se gli stessi potranno dire che per la giustizia si poteva fare a meno di queste informazioni. Si può non sapere tutto? E si può continuare a parlare ignorando ogni elemento?

Il mio racconto, la mia versione su cinquant’anni di storia della Repubblica è quella di una donna e di una giornalista che si occupa di femminile, di politica e di cronaca e dunque su questi argomenti ha messo insieme una vasta conoscenza. Il libro, oltre che una memoria biografica – la terra da cui vengo, le famiglie, le mie radici – è anche un’analisi su uno dei passaggio centrali della nostra democrazia: la battaglia sul divorzio, di cui Amintore Fanfani è stato convinto difensore per ragioni intrinseche e per obbiettivi politici credo mai rivelati nei contenuti e nei fatti che racconto. Tutto questo si lega alla mia vita e alla tragica fine di Jacopo attraverso la vicenda cui accennavo, il caso del Circeo, da cui “parte tutto” non solo per me, per la politica di questi anni, per i giorni che stiamo vivendo, cioè quell’antagonismo sinistra-destra ora così aspro e carico di invettive e ora scemante in un inquietante e ambiguo messaggio. Per questo ho pubblicato il mio libro, e ringrazio l’editore che ha reso possibile questa impresa e mi ha accompagnato. “La morte di Jacopo meritava immediate e caparbie indagini con la doppia lente investigativa e con il contributo di tutti”, gli ho spiegato. Mi ha creduto.

Si cercano pacificazioni e conciliazioni perché incombono guerre, il Paese ha bisogno di sicurezza ed equità economica. Tutto questo dipende anche dal grado di verità che sapremo recuperare, dopo anni smarriti di principi e valori. Il libro vuol essere anche “un lessico familiare” per spiegare ai più giovani gli anni da cui veniamo, i particolari intimi e generazionali, quei racconti che a mio figlio spalancavano orizzonti di stupore e che, a mio parere, abbiamo il dovere di rivelare sfuggendo all’occulto che attraversa la vita italiana. La storia e la cronaca non vanno solo in un senso, ma nel complesso di un affresco corale sulla nostra gioventù, sulle nostre battaglie e sui nostri ideali.

Donatella Papi Jacopo Fanfani, L’ultimo nipote, Gruppo A.V. Italia Srl (dal 20 ottobre su Amazon)

Aggiornato il 15 ottobre 2022 alle ore 11:37