Quello smarrito concetto di pace

Pace. Nulla di più semplice, contenuto, lieve, eppure nel nostro lessico quotidiano la parola “pace” è divenuta un concetto effimero come le promesse pubblicitarie, come i sogni dei bambini, come le favole. Abbiamo smarrito della “pace” il senso inglobato, edulcorato e ristretto della infinita marea di dolore, tragedia, morte che essa contiene. E che in questi giorni è scenario diabolico sui teatri della guerra russo-ucraina, giunta agli sgoccioli dell’agghiacciante avvertimento nucleare. Minaccia che ha elevato la preghiera di Papa Francesco rivolta a un gruppo di giovani in pellegrinaggio dal Belgio: “Stiamo attraversando momenti difficili per l’umanità, che è in grande pericolo – ha detto loro il Santo Padre –. Pertanto vi dico: siate artigiani di pace intorno a voi e dentro di voi; ambasciatori di pace, affinché il mondo riscopra la bellezza dell’amore, del vivere insieme, della fraternità, della solidarietà”.

Allo stesso modo sul pericolo nucleare, in cui in queste ore oscilla il mondo, si era espresso il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in occasione della consegna delle insegne ai nuovi cavalieri e alfieri del lavoro: “L’Europa – ha avvertito l’inquilino del Colle – è un bersaglio della guerra. La pace è urgente e necessaria”. Questa, ovviamente, una sintesi del discorso più ampio svolto dal Capo dello Stato sul tema della verità necessaria e del concetto di libertà applicato al contesto attuale, con un appello esplicito ai diritti internazionali che vanno riconosciuti all’Ucraina, dopo l’escalation dei bombardamenti russi di cui titolano i principali giornali.

Per Papa Francesco dovremmo imparare dalla storia di sessanta anni fa quando, allo stesso modo, incombeva la minaccia dell’atomica. Il Pontefice ha spiegato che erano i giorni in cui la Chiesa celebrava il Concilio Vaticano II, l’11 ottobre 1962. “Allora come oggi si respirava aria di guerra nucleare: il 22 ottobre di quell’anno il presidente americano John Fitzgerald Kennedy denunciava infatti che erano arrivati a Cuba i missili sovietici per essere puntati sugli Stati Uniti”. Effettivamente tre giorni dopo, il 25 ottobre, Giovanni XXIII lesse alla Radio Vaticana un accorato messaggio che era stato già consegnato a Kennedy e al presidente russo Nikita Kruscev: “Alla Chiesa sta a cuore più d’ogni altra cosa la pace e la fraternità tra gli uomini. Oggi noi rinnoviamo questo appello accorato e supplichiamo i capi di Stato di non restare insensibili a questo grido dell’umanità”.

All’epoca “il Papa buono” esortò i principali presidenti a fare ciò che era in loro potere per salvare la pace: “Così eviteranno al mondo gli orrori di una guerra, di cui nessuno può prevedere le spaventevoli conseguenze”, disse. Parole che non restarono inascoltate e che evitarono la fine del mondo. “Si scelse la via pacifica”, ha ricordato Papa Francesco, che già nei giorni precedenti era intervenuto richiamando la politica nelle ore frenetiche della formazione del nuovo governo, la società civile e le autorità a valutare seriamente i rischi che si paventano sul quel fronte oscuro di ragioni e diritti, di aggrediti e aggressori dove “la pace” è quanto mai necessaria. Non certamente la lotteria del chi ha iniziato prima o dopo, di chi ha armi e ne ha a iosa nell’abbondanza del più grave degli arsenali o di chi dovremmo armare fino ai denti. Ma per cosa? Per la pace? “Follia”, ha detto il Papa. “La pace non si fa con le armi”, forte del messaggio cristiano, che si fa laico, e di più in queste ore.

La domanda è semplice: vogliamo morire di guerra o di pace. Perché, come dicevo all’inizio, si è smarrito il concetto stesso se uno stato, un’Europa, insegnano ai giovani che bisogna combattere fino ai denti per conciliarsi. E, guardate, che il ragionamento non riguarda solo i conflitti, perché allo stesso modo in queste ore in Italia tanti muoiono di cartelle esattoriali. Si può uccidere con il fuoco, ma si può fare lo stesso con una democrazia cinica, ingannevole e micidiale. Per questo occorre una riflessione storica, estetica, valoriale sull’idea di “pace”. Che non è, appunto, il bigliettino dei cioccolatini, la promessa illusoria o il sogno irraggiungibile, in cui ancora credono gli stolti, i superficiali, i sognatori.

Perché la guerra – spiegano i colti militari – è inevitabile. E di fatti i giovani sui banchi di scuola studiano un susseguirsi di conflitti, molti studenti potranno dire anche con noia studentesca che si tratta di una catena infinita di guerre, battaglie, spedizioni. Ma quel maestro, insegnante, docente che è loro davanti, semmai dovesse cogliere questa obiezione, dovrebbe spiegare loro che “la via della pace”, scrutandoli negli occhi e pronto a dare il 2 in storia o la promozione, è passata per tutte quelle guerre. Dunque, che cosa auspicare?

In questa smarrita epoca vale la pena di ricordare che il messaggio più forte del concetto di “pace” è contenuto nella “colomba azzurra” di Pablo Picasso, il disegno a pastello realizzato nel 1961 per il Manifesto del congresso nazionale del Movimento per la pace, tenuto l’anno dopo in Francia a Issy-Les-Moulineaux. Chi non conosce questo quadro? Io, per caso, l’ho avuto come manifesto nella mia cameretta per anni. Lo avevo acquistato a una mostra, mi era piaciuto, a scuola si parlava ovviamente di Pablo Picasso, rientrava nelle educazioni di quegli anni. Era semplice, una colomba quasi sorridente con un rametto di ulivo nel becco. Il messaggio emblematico del pacifismo universale, come era nelle intenzioni dell’artista, in quanto ispirato all’uccello biblico di Noè relativamente alla colomba che aleggiava come simbolo divino sopra il Diluvio universale. Chissà quanto ci avrà lavorato Pablo Picasso su quell’idea divenuta segno, partendo dalle origini per risalire nella storia a un monito così lieve e delicato tale da raggiungere ogni cuore, ogni anima, ogni pensiero. Lui che certo non possiamo dire sia stato “il credente dei credenti”, certamente un laico, però un artista.

Veniamo a oggi. Ridiamo, ci preoccupiamo, poi torniamo all’effimero. Intuiamo il rombo micidiale degli scenari di guerra, che seguiamo nei telegiornali, nelle televisioni, ma pensiamo che tra fake news e scontri di potere, uno Zar e un comico, la geopolitica, i grandi Stati, le solite rivoluzioni in giro per il mondo, la nostra cara amata inflazione, le speculazioni, le tasse, il lavoro, le invasioni di stranieri, le problematiche che vanno dai redditi di cittadinanza alla siccità, forse l’acqua non basta per tutti, tutto questo pare scontato. Cioè, la fatica del vivere dell’uomo col suo sacco pesante da trasportare fino all’ultimo giorno. Invece no, la pace dipende da noi, dentro e fuori. In noi stessi e nel nostro quotidiano vissuto, vale per il cittadino come per i potenti e i poteri.

Ogni conflitto conduce a trattati, ho sentito dire in questi giorni da uno storico. E dai trattati discende la sicurezza per i popoli. Chi chiede armi e chi arma non è dalla parte della vita, vuole solo il prevalere delle sue ragioni. Ma le ragioni non sono mai singole, individuali, perché per essere tali vanno condivise. L’idea di dividerci in “putiniani” e “ucraini” è un’idea belligerante. Io sono per Vladimir Putin, cosa mi potrà capitare se lo scrivo in un’Italia in cui essere ucraini pare un diktat? Ma allo stesso modo sono per la gente ucraina, per i giovani, per i loro teatri rasi al suolo, per le città distrutte, per un paese che dalle immagini tv appare martoriato e per il quale, dunque, i negoziati sono la via d’uscita. Concludo con una riflessione di Ernst Hans Ernst Hans Josef Gombrich, pubblicata in Psicoanalisi e storia dell’arte del 1954: “Sarà anche mite, ma di certo la colomba è uccello temerario che sfida l’ignoto”.

Aggiornato il 12 ottobre 2022 alle ore 10:33