“La lunga strada verso il garantismo”

Riconosciuta professionista nel mondo della giurisprudenza, la dottoressa Augusta Iannini nella sua lunga carriera è stata, tra l’altro, magistrato di sorveglianza presso la Corte d’Appello di Roma per gli istituti penitenziari di Regina Coeli, Rebibbia Femminile, Rebibbia Reclusione e Civitavecchia; giudice istruttore del tribunale di Roma; direttore generale della Giustizia Penale; capo del Dipartimento per gli Affari Giustizia e, dal 2012, Presidente dell’autorità garante per la tutela dei dati personali. Ha ricevuto diversi premi nel corso della sua carriera come Cavaliere dell’Ordine Nazionale della Legion d’Onore, il premio Bellisario per la giustizia e il Minerva alla carriera. Avendo avuto modo di conoscerla alcuni anni fa durante un convegno, guarda caso sulla Giustizia Giusta, il nostro confronto inizia spontaneamente constatando l’attuale stato culturale italiano: “Siamo un po’ troppo massimalisti in tutto, invece le sfumature sono importanti”. Così dichiara la dottoressa Iannini, con pacatezza e, allo stesso tempo, con ferma consapevolezza.

Il tema della giustizia non può essere affrontato impulsivamente, di pancia. Nonostante la prima reazione umana sia istintiva, poi bisognerebbe ragionare a mente lucida. Eppure…

La giustizia si presta molto, purtroppo, a questo tipo di interferenza: il diritto ancora non viene considerato come una “scienza” come la matematica, la fisica o l’ingegneria. C’è la convinzione diffusa che chiunque possa parlare di giustizia, confondendo i contenuti. Invece ci sono delle regole, regole scientifiche come l’interpretazione delle norme, che possono condurre a risultati che non corrispondono alla giustizia intesa come valore generale. Però il fondamento dello Stato di diritto è esattamente questo: applicare le regole. A prescindere se si condivide o meno il risultato che l’applicazione delle stesse produrrà. Se volessimo utilizzare un’espressione banale ampiamente usata, potremmo sintetizzare chiedendoci: è meglio un colpevole fuori dal carcere o un innocente dentro? La risposta per me è ovvia: è meglio un colpevole fuori. La sentenza giusta non è quella che corrisponde al sentimento istintivo di chi la valuta. Però questo è molto difficile da far capire perché la vendetta è un sentimento umano non eliminabile.

C’è anche una responsabilità da parte dei media nel come pongono la questione giustizia all’opinione pubblica? Perché il tema giuridico non viene affrontato in maniera scientifica?

La frase al di là di ogni ragionevole dubbio non è una formula estetica, ma una questione sostanziale: finché esiste un margine di dubbio su come debba essere valutata una circostanza, non può esserci un giudizio di colpevolezza. Ogni qual volta un fatto si presta a più di un’interpretazione c’è il dubbio. Questo è il motivo per cui a volte si arriva a delle assoluzioni che il grande pubblico non capisce. Ma se si applica correttamente la formula, non si può condannare senza certezza della colpa. Il garantismo ovviamente implica anche altri aspetti, ma questo è il punto di partenza fondamentale. Che tutto sommato non è poi così difficile da capire.

Eppure, molto spesso il garantismo viene scambiato o presentato come innocentismo, anche se sono due posizioni profondamente differenti.

Peggio ancora, può succedere che il garantismo venga scambiato con la volontà di coprire o addirittura favoreggiare il crimine. Ma questa è la prospettiva dei giustizialisti. Perché quando si arriva – applicando le regole – a un verdetto inequivoco di colpevolezza, si deve solo quantificare la pena. Anche in questo caso seguendo i criteri prestabiliti dalla legge. Ma serve la certezza della colpevolezza.

Infatti, si deve garantire anche la certezza della pena. Ma il garantismo si batte affinché questa pena sia giusta e non vendicativa. Come, tra l’altro prevede la nostra Costituzione: la pena ha lo scopo di riabilitare la persona rea per consentirle il corretto reinserimento in società.

Questo è un concetto molto difficile da far accettare, ma è esattamente così: la pena in carcere dovrebbe essere scontata con il fine ultimo del reinserimento nella società. Questo implica fornire gli strumenti idonei per la realizzazione dello scopo. Purtroppo, le statistiche non confortano: conosciamo tutti il rischio della recidiva, di reiterare il crimine già commesso, dopo aver scontato la pena. Ma non possiamo non valutare le carenze strutturali e la mancanza di reali percorsi di reinserimento. Vanno impiegati mezzi opportuni, perché bisogna certamente migliorare i dati numerici, ma ribadire il principio fondamentale per il quale se anche una sola persona riesce a compiere il difficile processo del reinserimento, il sistema ha funzionato.

Tra l’altro, è proprio la statistica che ci dice che per tutti i detenuti che accedono ai percorsi alternativi (che non vuol dire non scontare la pena, ma avere la possibilità di impiegare le proprie giornate in maniera diversa che essere rinchiusi in cella a non fare niente) il rischio recidiva si abbatte di oltre il 90 per cento. Perché quindi è così difficile mettere in pratica ciò che la legge già prevede?

La mia esperienza di magistrato risale a molti anni fa, agli anni ’80, però fu molto interessante proprio perché era all’inizio dell’applicazione della legge Gozzini (legge che implica la possibilità di modulare e graduare la pena nel corso dell’esecuzione in modo da favorire il processo rieducativo del condannato, ndr). In alcuni istituti penitenziari era stato fatto un investimento per studiare come applicare nel modo migliore possibile questa nuova legge. Il numero dei detenuti e l’automatismo che si è instaurato successivamente in alcuni istituti, come la liberazione anticipata ed i permessi premio, non ha giovato a rassicurare l’opinione pubblica. Certe misure poi, oltre all’auspicabile reinserimento nella società, hanno avuto lo scopo di deflazionare il numero dei detenuti in carcere e questo ha contribuito a creare nell’opinione pubblica una percezione sbagliata, nonostante lo scopo di evitare il sovraffollamento negli istituti di pena fosse giusto. Ci sono poi tante altre criticità: la scarsità di lavori reali da svolgere una volti usciti dal carcere; l’oggettiva difficoltà di seguire il percorso di ogni singolo detenuto. Ma sono comunque convinta che il fine del reinserimento vada perseguito nonostante le difficoltà. Tutte quelle norme che sottraggono una persona al percorso del reinserimento, non le condivido. Quanto più il crimine è odioso tanto più bisognerebbe lavorare con la persona che ne è dichiarata responsabile. Nonostante il tema delle strutture carcerarie non sia stato ancora risolto, nonostante tutti gli anni passati a discutere del problema, bisogna migliorare il sistema. La legge Gozzini non può essere utilizzata solo come strumento per mantenere la disciplina in carcere: il fine era sicuramente anche quello di sgravare le strutture carcerarie, ma l’obiettivo primario della legge era quello di incentivare comportamenti virtuosi in modo da rendere il reinserimento effettivo. È paradossale ma il reinserimento, finché si è protetti dal carcere e dalla comunità terapeutica, non può essere realmente verificato proprio perché si ha ancora un sostegno che, una volta finita di scontare la pena, non ci sarà più.

Se volessimo generalizzare, l’opinione pubblica sembra percepire il rientro in società di un detenuto come distante da sé. Manca un po’ la percezione di quanto la società sia unica e che se fallisce il reinserimento di un detenuto fallisce tutta la società civile?

C’è solo una percezione di difesa nei confronti di chi ha commesso un crimine, nonostante abbia espiato la pena e si sia reinserito. Le difficoltà sono enormi. Chiunque, consapevole che un proprio dipendente si fosse trovato ad avere a che fare con la giustizia, non sarebbe così disponibile a continuare nel rapporto di lavoro. Il rischio di tutto il mondo della rieducazione è sempre di dover rincorrere delle soluzioni protette: che siano comunità, cooperative o associazioni. Perché per un ex detenuto l’accesso al mondo del lavoro, come un qualunque altro cittadino, è acrobatico.

È proprio questo che crea i maggiori problemi: lo stigma sociale, dovuto anche alla errata informazione e alla strumentalizzazione del tema giustizia, impedisce l’applicazione della legge e il reale reinserimento in società di una persona che ha scontato la pena.

Il percorso fuori dal carcere, grazie anche agli assistenti sociali e a tutti gli operatori, è fondamentale. Bisogna essere consapevoli che c’è un lavoro enorme da fare ed è sempre in salita.

È per tutte le difficoltà di cui abbiamo parlato che il tema giustizia è totalmente assente dalla campagna elettorale? E, oltre a questo, si assiste ad una sorta di blocco: da tempo si fanno gli stessi ragionamenti ma non cambia niente.

“Io distinguerei il tema della giustizia civile da quella penale. Il settore civile è un parametro con il quale si misura la crescita della nostra economia. Sono stati fatti notevoli passi avanti. Per esempio, grazie allo strumento della negoziazione assistita ed alla mediazione (legge del 2008 portata avanti dalla stessa dottoressa Iannini, ndr). Trovare un accordo, anche se questo implica la rinuncia di qualcosa da ambo le parti, è preferibile rispetto ad una sentenza. Vittoria e sconfitta sono termini divisivi. L’avvocatura può svolgere un grande ruolo per riuscire a trovare un accordo tra le parti. Poi si possono ulteriormente migliorare gli strumenti e formare una classe forense specializzata nell’utilizzare sistemi alternativi di risoluzione delle controversie. Questo è uno dei modi più immediati per stimolare gli investimenti in Italia. Infatti, se non si riportano gli investitori in Italia, a causa della lungaggine della giustizia civile, non si possono creare nuove occasioni di lavoro con tutte le implicazioni che questo comporta. Per quanto riguarda invece la giustizia penale, non si sono fatti grandi passi avanti. Non si è mai affrontato in modo serio la depenalizzazione, uno dei primi temi da dipanare. Come il tema della giustizia riparativa che non viene mai preso di petto. E, allo stesso tempo, il processo penale che deve essere affrontato in maniera radicale con tutte le garanzie del caso: il ruolo dell’accusa si è espanso in maniera enorme e non è stato in alcun modo bilanciato da analoghi poteri conferiti alla difesa. E, in questo confronto accusa/difesa, il giudice terzo è un po’ venuto meno alle sue funzioni. Anche gli attacchi al rito abbreviato sono attacchi all’efficienza di un sistema: limitare l’accesso al rito abbreviato vuol dire escludere anche la possibilità di concludere un processo in tempi brevi. Condizione necessaria per poter parlare di equo processo. E, d’altra parte, se ci si fida del giudice, perché si vuole limitare il suo ruolo? Andrebbero potenziate tutte le pene alternative: il carcere deve essere l’ultima opzione. Non dovrebbe esistere l’ergastolo ostativo. Ma mi rendo conto che forse non siamo ancora pronti per affrontare questa questione, servirebbe un maggiore coinvolgimento dell’opinione pubblica ed un maggiore approfondimento.

Sempre in tema di giustizia penale, lo scorso giugno si è tenuto il referendum (che non ha raggiunto il quorum) dove venivano presentati 5 punti: gli stessi di cui si parla da almeno 20 anni.

Devo dire che ho trovato tutti i quesiti difficili da spiegare a chi non è del settore. Allo stesso tempo non si è fatta una campagna di informazione sufficientemente adeguata. È molto difficile fare informazione su queste tematiche perché c’è un naturale atteggiamento di difesa da parte dell’opinione pubblica. Purtroppo, spesso, il ruolo della stampa non aiuta perché banalizza le questioni in nome dell’audience. E il tema del garantismo non porta risultati in termini di audience, perché non è popolare. Le persone non pongono l’attenzione su queste tematiche fino a quando non le riguarda in prima persona. È un tema molto delicato e bisognerebbe andare per gradi. Tornando al tema del carcere, bisogna incentivare il lavoro e lo studio dei detenuti, due elementi fondamentali del trattamento. Un detenuto che consegue la laurea in carcere ha diritto a uno sconto di pena perché ha impiegato il proprio tempo in un percorso virtuoso di miglioramento come essere umano. È riuscito nel difficile processo di trasformazione di se stesso tramite un lavoro di crescita interiore e di autoconsapevolezza. Anche il lavoro in carcere, nel senso dell’acquisizione di una professionalità, dovrebbe essere inquadrato rispetto ai bisogni della società nella quale il detenuto sarà chiamato a reinserirsi. Se servono saldatori, si può provare ad attivare dei corsi all’interno del carcere; se occorrono programmatori informatici, bisogna indirizzarli verso questo percorso di studi. In una parola, il carcere dovrebbe sfornare professionalità competitive rispetto al mercato del lavoro. E forse, in questa prospettiva, anche l’opinione pubblica potrebbe ritenere che ne valga la pena.

Aggiornato il 12 settembre 2022 alle ore 10:10