Prima nascita da trapianto di utero

“Il progresso tecnico non implica il progresso etico”: così Pierre-André Taguieff ha chiarito la strutturale ambivalenza che contraddistingue il raggiungimento di nuove frontiere della tecnica le quali non assicurano – di per se stesse – un corrispondente raggiungimento dei requisiti etici minimi e necessari affinché non venga violata la dignità umana. Il principio si adegua perfettamente alle vicende bioetiche e biogiuridiche che negli ultimi decenni sono aumentate in numero e complessità come, per esempio, quelle relative alle procedure con cui far venire alla luce un nuovo essere umano (procreazione medicalmente assistita, selezione embrionale, fecondazione eterologa, utero in affitto, trapianto d’utero).

In questo scenario, si inscrive la notizia riportata dall’Ansa secondo cui, presso l’ospedale Cannizzaro di Catania, è nata per la prima volta una bambina da una donna che ha ricevuto il primo trapianto di utero da donatrice deceduta realizzato in Italia, primo caso nel nostro Paese e sesto in tutto il mondo. Il fatto si presta quale banco di prova per alcune riflessioni di carattere biogiuridico che possano tracciare il perimetro delle problematiche di una così innovativa tecnica che in futuro sarà sicuramente sempre più usata, e verosimilmente, abusata.

In primo luogo: la medicina dei trapianti ha compiuto enormi passi in avanti dal punto di vista tecnico negli ultimi decenni consentendo una migliore capacità di tutelare compiutamente il diritto alla salute, e spesso anche quello primario della vita, di soggetti che un tempo avrebbero visto irrimediabilmente pregiudicata la propria esistenza.

Il trapianto di utero, dunque, si inserisce in questo scenario di tutela dell’integrità corporea, ma proprio per questo occorre distinguere i trapianti da persona deceduta da quelli da persona vivente, poiché nel secondo caso vi sono difficoltà non indifferenti. Ammettere il trapianto di utero da persona deceduta – come nel caso di Catania – significa, infatti, inserirsi all’interno della buona pratica clinica che non reifica l’essere umano o le sue parti; se, invece, si dovesse diffondere la possibilità del trapianto di utero – come anche di altri organi del resto – da persona vivente, come per esempio accade in Svezia, i rischi di una reificazione e mercificazione dell’essere umano e dei suoi organi diventerebbe quanto mai reale. Ecco perché l’ordinamento italiano contempla una serie di limitazioni sugli atti di disposizione del proprio corpo (ex articolo 5 del Codice civile) escludendosi, peraltro, da parte dell’articolo 3 della legge 91/1999 la possibilità di trapiantare gonadi ed encefalo, consentendosi, invece, il trapianto di utero da cadavere.

In secondo luogo: ciò considerato, bisognerebbe comunque distinguere il caso in cui il trapianto di utero avvenisse per far fronte a patologie di una certa gravità come la sterilità causata, per esempio, dalla mancanza congenita dell’utero medesimo, dai casi in cui si vorrebbe ricorrere a tale tecnica per soddisfare il mero desiderio di genitorialità, magari rivendicando un (presunto) diritto al figlio. Nel primo caso, infatti, la donazione dell’utero sarebbe quanto mai eticamente legittima rientrando nell’ottica di un ripristino dell’integrità psico-fisica della donna che di per sé, dunque, non può essere oggetto di sospetti etico-giuridici. Nel secondo caso, invece, al mutare dell’orizzonte teleologico muterebbe anche il quadro etico e giuridico perché l’intera operazione sarebbe messa in essere al fine di ottenere il nascituro come oggetto e non come soggetto di un reclamato diritto. Nel primo caso, insomma, si tratterebbe di tutelare il legittimo diritto alla salute della donna, mentre nel secondo caso si tratterebbe di una ambigua forma di rivendicazione del diritto al figlio, cosa distinta e distante oltre che giuridicamente illegittima.

In terzo luogo: si consideri, peraltro, che uno strumento lecito come il trapianto di utero potrebbe facilmente divenire uno strumento radicalmente anti-giuridico qualora fosse utilizzato per altri scopi, come per garantire la funzionalità perenne di un organo da parte di chi volesse ricorrere all’utero in affitto, oppure per intraprendere forme ancor più radicali, ma tecnicamente possibili come la gravidanza maschile o quella delle persone transgender.

Una operazione nata al fine di tutelare l’umanità della donna che intende generare, insomma, potrebbe ribaltarsi nel suo opposto divenendo strumento di negazione dell’umano della donna e di tutti i soggetti in essa potenzialmente coinvolti. Si dimostra, così, se ancora ve ne fosse di bisogno, la non neutralità etico-giuridica dei ritrovati della attuale bio-medicina che, quindi, per conservare il proprio statuto deontologico, deve sempre essere vagliata alla luce del principio personalistico e della ragion giuridica, accettando gli eventuali limiti etici e giuridici che ad essa si dovessero imporre.

Aggiornato il 05 settembre 2022 alle ore 10:56