On the road: cronaca di un viaggio allucinante

Politicamente – e moralmente – Roma è quasi come Kiev, solo che al posto di un esercito invasore ospita persone che, forse per amore, forse per denaro, rinuncia alla verità e crea crisi politiche da patatrac. Però qui, nell’Italia di oggi, molti hanno il portafogli ricolmo e tutti sono liberi di circolare a bordo di auto per le quali un giovanotto di alcuni anni fa sdilinquiva. Su che auto si circolava, e dove, quarant’anni fa? Ecco una storia vera, fatta per distrarsi e districarsi in questa lunga e increspata estate.

Nel 1981-1982, ancora ragazzo, mi capitò di soggiornare in Messico (da dove poi feci un viaggio in America centrale). Fu un percorso di vita che definire avventuroso sarebbe poco. A un certo punto, partii dalla città messicana dove risiedevo, grazie a una ricerca universitaria commissionata in Italia a me e a una coppia di amici e compagni di facoltà. Fu un tragitto nel tragitto. Salimmo su un treno notturno a Città del Messico per Vera Cruz e Palenque, città che raggiungemmo dopo due giorni di vita ferroviaria su un convoglio su cui salivano indigeni maya che vendevano polli in gabbia e ragazzi che iniziavano discorsi evangelici con passeggeri sconosciuti (il Messico era strano: l’autista di un bus notturno poteva bloccare il mezzo in cima a una montagna, gridando ho visto un folletto! e sparire tra gli alberi).

Palenque è sede di una piramide maya detta dell’Astronauta, dove mi calai lungo un cunicolo laterale. Dopo di ciò, trascorsi quasi tutta la mattina a mangiare pompelmi, arrampicato su un albero (ero reduce da una pesante “Vendetta di Montezuma”). Si calcoli che ero stato nel Messico centrale per alcuni mesi, senza vedere nemmeno uno straniero, figurarsi un italiano. A Palenque però ne incontrammo uno, un romano quasi quarantenne. Sembrava un barbone. Ci fermammo un po’ a parlare e lui ci invitò a fare una escursione in un posto fantastico (lo era davvero) chiamato Agua azul (vedo sul web che ora è una località turisticizzata, quindi alquanto schifosa rispetto a 40 anni fa). Ci facemmo allettare dall’invito, anche perché lui aveva un’auto con la quale si sarebbe arrivati abbastanza in fretta. Disse anche di voler andare in centro America e che cercava un compagno con il quale dividere le spese. Gli dissi che mi sarebbe piaciuto partire con lui (gli altri due volevano andare a San Cristóbal de Las Casas, nel Chiapas, io no). Salimmo sulla sua vettura: era un delirio. Si trattava di una vecchia Ford Galaxy 5000 station wagon, di almeno 10-15 anni. Era diventata un vero relitto, sembrava lo scarto di un rottamatore d’auto. Lui in pratica viveva su quella Galaxy, 5000 di cilindrata, nel cui immenso portabagagli c’era di tutto: montagne di lattine di birra, abiti stracciati, cartacce, residui di tortillas e tacos vecchi di anni.

Dopo un viaggio di circa 30 chilometri tutto in salita, attraverso la giungla, arrivammo. Il posto era stupendo davvero. Ci tuffammo in mezzo a chilometri di cascate e laghetti sorvolati da pappagalli e immersi nei gridi delle scimmie. I figli di qualche famigliola di messicani in uscita per il pic-nic facevano il bagno. Nuotavo in quel luogo pieno di colori e pace con la ragazza e il ragazzo, miei compagni di cammino, mentre il romano iniziò a rollare spinelli come se fossero caramelle, sdraiato sulla sabbia. Poi lo vedemmo girare dove avevamo lasciato le nostre cose, e ci prese la paura che volesse derubarci dei travel cheque che avevamo (allora non c’erano carte di credito, bancomat e altre diavolerie tecno-finanziarie).

Uscimmo dall’acqua e dopo un po’ gli chiedemmo di tornare giù verso Palenque. Partimmo: il tipo era strafatto e per giunta continuava a fumare. Si girava all’indietro per parlare con noi, e noi gridavamo “guarda davanti!. La via era tutta in discesa e per fortuna non c’erano quasi altre auto, ma la Ford sbandava e rischiava di uscire di strada a ogni curva. Terrorizzati, riuscimmo a resistere per un quarto d’ora poi parlammo tra noi e si decise di fare un golpe. Nessuno di noi tre aveva la patente, e io avevo guidato solo per un quarto d’ora una Jaguar, la cui complicata storia è narrata in un libro dello scrittore Gianni Celati, nostro professore di Università (riposa in pace). Però ero l’unico che, forse, poteva riportare tutti in città.

Gli dicemmo di passare sul sedile di dietro e mi misi al volante. Per fortuna l’auto aveva il cambio automatico. Purtroppo, aveva anche un altro problema: ogni volta che schiacciavo il freno, che dava solo qualche cenno di vita, il veicolo rallentava appena e quella (quasi) tonnellata di ferro e lattine di birra cominciava a sbandare verso destra, così dovevo compensare tirando il volante verso sinistra. Roba da far venire i capelli dritti a un rastafariano.

Intanto il tipo prese a grattarsi. Gli chiedemmo cosa avesse. Rispose “le piattole”. Quando – miracolosamente – riuscimmo a tornare nella (quasi) civiltà, lui ci portò verso una locanda che si chiamava Alicia. Entrai, doveva essere un ex carcere, perché ai fianchi del corridoio centrale c’era una serie di “stanze” con la parete, che dava sull’androne, fatta di sbarre di ferro e con una porticina sempre fatta di sbarre. Le stanze poi consistevano in un paio di brandine così consunte da poter provenire dall’Arca di Noè, su cui dormivano centurie di mosche e un paio di stracci, destinati a ricoprire gli ospiti.

Dicemmo addio al tipo romano. Io presi un treno verso Merida, da dove andai in Belize (una nazione pazzesca, appena diventata indipendente, con un ministro di Al-Fatah) e poi in Guatemala, con una ragazza svedese conosciuta a Tulum (Yucatan meridionale).

Aggiornato il 13 luglio 2022 alle ore 10:58