Era un virtuoso. Di se stesso. E dei suoi demoni. Suonava da Dio. E lo bestemmiava nelle cantine laide della Roma underground. Era trasversale: faceva impazzire bori e pariolini, coatti e fighetti di Roma Nord, avvocati e stagnari. Richard Benson è stato all’inizio un mistero televisivo, ma anche musicale e artistico, quando le tivù private romane, negli anni Ottanta, facevano più ascolti di mamma Rai. Era quell’Ottava nota che non potevi perderti il venerdì sera, anche se non capivi quasi nulla di quello che ti raccontava. E più non capivi, più restavi affascinato da quella maschera fragile, con quella pronuncia inglese perfetta e una cultura musicale devastante, che ti raccontava storie di chitarristi maledetti, sconvolti dalla gloria e dal loro stesso talento, ma con percorsi artistici unici e irripetibili.
Nomi incomprensibili, storie, aneddoti e una padronanza della materia impressionante: heavy metal, hard rock, blues, funk e pure jazz. Richard è stato una macchina da guerra che ha conquistato tutti, con le sue storie di riff e progetti sperimentali, tecniche musicali e dischi imperdibili che conosceva solo lui. E che poi si è fatto pagliaccio anche sui canali nazionali della telerissa. Lo ha capito (quasi) subito Carlo Verdone, che gli ha dato le chiavi per aprire il film più bello della sua carriera, quando nella scena iniziale di Maledetto il giorno che t’ho incontrato lo lascia interpretare se stesso mentre intervista un intimorito Bernardo Arbusti, quello della pupilla dilatata, le distonie vegetative e l’improbabile scoop su Jimi Hendrix.
Era distonico pure Richard Philip Henry John Benson o come diceva di chiamarsi, secondo un passaporto che è diventato prima un mistero e poi un ex voto. Distonico e perverso nella sua rara capacità di farsi male. Popolare e popolano, osceno come nelle migliori tradizioni. E coerente con la legge non scritta del chitarrista maledetto, seppur coccolato da una Roma che ti ama, ti allatta e ti fotte. E ti risputa come un osso di pollo, che ti va di traverso. E di polli Richard ne ha presi, anzi pretesi, tanti. È stato tutto. Arlecchino e Pantalone, Artificiale e Naturale, Guitto e Nobile, Istrione e Giullare nella Roma disincantata e cinica di fine secolo.
È stato soprattutto un innovatore. Coltissimo, anche nel sapersi concedere, spavaldo e indifeso, all’oblio. Ha dato dignità al senso del ridicolo, alla bruttezza e alla blasfemia. Ha sbracato con dignità e urlato ai santi per quattro spicci, protetto da una rete metallica mentre i figli di papà e di mignotta lo aizzavano tra insulti e madonne. Ha stuprato se stesso fino a godere della propria stessa miseria. È stato nell’inferno dei vivi e ne ha anticipato la discesa, senza retorica e con una teatralità unica.
Aggiornato il 10 maggio 2022 alle ore 16:59