L’essenziale, oltre che essere invisibile agli occhi, è quello di avere a disposizione un pallone e una porta quantomeno definita. Di solito l’appuntamento prende corpo in quella Polisportiva, esattamente dove si trova il campo di calcio a cinque, con pavimento in mattonelle, teatro di infuocate partite sia durante l’anno che nei tornei estivi. La struttura ha anche campi da tennis (uno in principio in cemento, a cui se ne aggiungono due in terra battuta) e un altro per il calcetto con tanto di manto in erba (dapprima pseudo pratino inglese, in seconda battuta sintetica). Sono gli anni Novanta e il grido di battaglia è uno: “Ci facciamo una Tedesca?”.
Allora, specifichiamo: nessun pensiero scabroso. La Tedesca, infatti, è un gioco di strada nazional-popolare senza limiti di età, dove ognuno può dire la sua, anche se ai piedi ha due banane o due ferri da stiro. La location può essere un prato come il cortile o la piazza del paese o di quartiere: poco importa. Fondamentale è non fare cadere la palla: tutto è al volo, come i circensi ma senza meriti per essere definiti tali.
In questo quadro post-moderno, va ricordato che esistono delle regole: quindi chi inizia in porta ha cinque punti in più. Poi ecco una lista non scritta che deve essere imparata a memoria prima di subito, salvo punizioni estemporanee come gavettoni o schiaffi del soldato senza colpo ferire. Quindi: il gol di piede toglie un punto, di testa cinque punti, di tacco sette punti, in rovesciata dieci punti, di spalla azzera, di ginocchio tre punti. Ora, lungo lo Stivale i vari punteggi possono cambiare. Addirittura, c’è chi adotta il condono del “palo che salva” (dall’ingresso in porta) mentre altri restano minimal: si va tra i pali dopo che la sfera esce fuori a seguito di una ciabattata clamorosa. Non solo: se qualcuno dei giocatori colpisce la palla con la mano è immediato il calcio di rigore. Se parato, si entra in porta tra gli insulti degli astanti.
La Tedesca è per certi versi come la Luisona – la brioche perennemente esposta in vetrina, declamata da Stefano Benni in “Bar Sport” – ovvero una figura mitologica, plasmata in contesti non intaccati da Playstation o altre console di videogiochi. Ma anche un luogo di celodurismo fanciullesco e una occasione per sentirsi un po’ Roberto Baggio nonostante la sensibilità tecnica pari a quella di un elefante che si atteggia a Tony Manero dentro la cristalleria. Un gioco che oggi viene raccontato da chi, ahimé, dà calci perché non sa giocare a calcio. Quindi, si attacca alla penna, per ricordare un passato così vicino ma anche così lontano. Un modo, dopotutto, per farsi coraggio. Un po’ per necessità, un po’ perché – alla fine – è sempre meglio che lavorare.
Aggiornato il 22 aprile 2022 alle ore 11:27