La religione non giustifica mai il maltrattamento del famigliare

L’antigiuridicità di condotte rilevanti ai sensi dell’articolo 572 del Codice penale non può essere esclusa o scriminata invocando la cultura d’origine e la religione professata dall’imputato: questi e altri principi affermati in una importante recente sentenza del Tribunale di Lecce.

La seconda sezione penale del Tribunale di Lecce in composizione monocratica, con sentenza n. 531 del 9 marzo 2022, est. Mariano, ha riconosciuto colpevole un marito del delitto di cui all’articolo 572 Codice penale e lo ha condannato alla pena di cinque anni di reclusione, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, all’interdizione legale per la durata della pena ed al risarcimento dei danni, in favore della moglie, quantificati in 50mila euro (ecco una vicenda analoga). La giovane donna, nata in Italia da genitori di nazionalità marocchina, aveva denunciato il coniuge, di dieci anni più vecchio e immigrato dal Marocco in età adulta, per episodi gravi di maltrattamento fisico e per le continue angherie ed umiliazioni che le riservava, compresa l’imposizione di indossare il velo tradizionale islamico.

La difesa dell’imputato aveva sostenuto che il contesto socio–culturale di provenienza e la fede religiosa dell’uomo attribuivano al marito piena autorità sulla moglie, e il diritto di esigere da questa l’obbedienza, anche ricorrendo a punizioni corporali, e di conseguenza l’imputato non poteva comprendere pienamente il disvalore e l’antigiuridicità attribuita ai suoi comportamenti dal nostro ordinamento. Condotte che sotto il profilo civilistico, in violazione dei doveri discendenti dal matrimonio, determinano l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza vita coniugale “, in alcuni casi, possono assumere rilevanza anche ai fini penalistici, rientrando nella fattispecie contemplata dall’articolo 572 Codice penale “Maltrattamenti contro familiari o conviventi”.

Per alcuni di questi comportamenti l’illiceità è oggettivamente evidente, come nel caso delle percosse. Più difficile è determinare e individuare l’abuso psicologico, vale a dire quell’insieme di vessazioni di varia natura che incidono profondamente sull’autostima della vittima, colpendone la dignità personale, la considerazione di sé e nel contesto sociale e provocando profonde sofferenze psichiche. Nel caso trattato dal Tribunale di Lecce venivano accertati maltrattamenti fisici, refertati dai verbali di pronto soccorso e confermati dalle dichiarazioni testimoniali. Ma vi erano anche abusi di carattere psichico, che la difesa dell’imputato giustificava con la particolare concezione delle relazioni fra coniugi e familiari, tipica del contesto in senso lato culturale di provenienza del marito. All’interno di esso il ruolo del marito – cui la moglie sarebbe subordinata – avrebbe giustificato secondo la difesa condotte considerate prevaricanti e violente, giudicate per ciò illecite dal nostro ordinamento.

Secondo la difesa dell’imputato, la condotta di questi avrebbe dovuto essere riletta e perciò scriminata, alla luce del credo religioso e del modo di vivere nel luogo di provenienza, che riconosce al marito una piena autorità in termini di diritto; l’imposizione dell’uso del velo, così come il ricorso alle percosse per ottenere obbedienza sarebbero stati conformi all’esercizio di tale autorità. Correttamente il Tribunale di Lecce ha invece ritenuto che “ogni condotta di predominio violento, fisico e morale sulla propria moglie, persona libera ed eguale, costituisce reato indipendentemente da quale sia il credo personale o religioso del marito”.

L’autoritarismo che si traduce in sopraffazione abituale, pur se fondato su un credo religioso, non trova giustificazione né può essere elevato a valore – benché le convinzioni religiose in sé lo siano – se lede la dignità e il rispetto dovuto ad ogni persona umana che trova il suo riconoscimento nell’articolo 3 della nostra Costituzione: nel sottolinearlo, il Tribunale salentino lo reputa maggiormente necessario in una società diventata multietnica. Né vale invocare l’appartenenza e la provenienza da paesi in cui abitudini e mentalità legittimano comportamenti incompatibili con il diritto italiano perché “chi trasferisce la propria residenza in Paese estero con pretese di cittadinanza, magari per affrancarsi da condizioni originarie di povertà o persecuzione, deve sapere che dovrà rispettare la legge del popolo di arrivo e non potrà in nessun modo ipotizzare di comportarsi come le leggi o gli usi dello stato di origine consentivano, tantomeno per ragioni religiose in un luogo dove è riconosciuta la libertà di culto”.

La pronuncia è significativa, oltre che per la coerente disamina dell’accaduto, per la chiara affermazione di principi che, pur se radicati nel nostro ordinamento, tuttavia non sempre sono presenti nella loro concreta declinazione alla magistratura italiana, sia quanto all’esercizio dell’azione penale, sia quanto alla risposta in sede giurisdizionale: il che ha concorso a formare nel territorio aree di impunità rispetto a condotte gravemente lesive della persona, e in particolare della donna. Di particolare rilievo è anche il trattamento sanzionatorio, che va motivatamente oltre il minimo edittale: all’insegna non già della pena esemplare, bensì di una risposta punitiva adeguata alla gravità della vicenda presa in esame.

(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino

Aggiornato il 18 marzo 2022 alle ore 17:39