La guerra sporca impazza con la sua carneficina di militari, soldati e civili. I telegiornali hanno iniziato a trasmettere il velenoso computo delle prime settimane. Scorrono immagini raccapriccianti, come le fosse comuni colme di sacchi lanciati da civili coi corpi inermi della strage dei caduti. Nelle strade le madri straziate di lacrime mostrano le foto dei giovanissimi figli, che fieri e sorridenti erano andati a difendere l’Ucraina. Tutti ragazzi sui vent’anni. Le sragioni di russi, americani, europei e del presidente Volodymyr Zelensky stanno cancellando una generazione. Non solo. Come mai prima d’ora, sui fronti interni cadono anche i “grandi inviati di guerra”. Tre in due settimane, oltre al cameraman ferito per primo della Rete Tv di Kiev “Live”. Stewart Ramsay, l’inviato della britannica Sky, è scampato all’ultimo a una imboscata. Poi i due americani Brent Renaud e Juan Arredondo. L’inviato inglese e Arredondo colpiti gravemente, Brent Renaud il primo “capro espiatorio” del “fronte di guerra più pericoloso di ogni conflitto del passato”, come prende forma sui media l’apocalissi in corso per dispiego di armi militari e per l’assurdità di accuse contro intransigenze, di ultimatum e resistenze in bilico sulla minaccia del nucleare.

Brent Renaud è morto domenica 13 marzo 2022. Cinquantuno anni, giornalista collaboratore del New York Times, fotoreporter e filmaker di fama internazionale, era a Kiev come freelance. Insieme al collega Juan Arredondo, fotografo vincitore del Premio World Presse Photo e insegnante alla Colombia University, si erano spinti nel sobborgo di Irpin, a dieci chilometri a nord ovest di Kiev, per documentare “il grande esodo” dei profughi insidiati dalle truppe corazzate russe.

Le cronache riferiscono che i due americani avevano preso un taxi per raggiungere dalla capitale la cittadina caduta sotto il controllo dei russi e giungere così a uno dei due ponti sul Dnepr, dove si sta svolgendo la massiccia operazione di evacuazione dei civili. Una volta giunti lì, però, Brent e Juan avevano chiesto un passaggio per arrivare a un secondo ponte, dove si ammassava la fuga. Area infestata da cecchini “a caccia di nemici da abbattere”. Come riportano le cronache, mentre l’auto a bordo della quale viaggiavano i due americani si stava avvicinando al check-point russo, è iniziata una infuocata sparatoria. Colpito Arredondo, caduto sul corpo del collega raggiunto al collo, mentre l’auto tentava una disperata inversione di marcia sotto il fuoco dei militari che hanno sparato fino a brevissima distanza al posto di blocco.

Queste almeno le dinamiche descritte sui media, in base alle quali si potrebbe propendere per “un agguato”. Sarà il fotografo superstite a chiarire l’accaduto. A caldo, confuso e spaventato, mentre lo stavano medicando alla coscia, lo statunitense ha rilasciato alcune dichiarazioni alla giornalista del Tg La7 Annalisa Camilli, trasmesse per gli Esteri nel servizio di Raffaella Di Rosa, e diffuse anche da altre agenzie ucraine. "Stavamo attraversando il primo ponte, a Irpin – ha raccontato Arredondo alla telecamera – per filmare i rifugiati che partivano. Siamo saliti su una macchina che si è offerta di portarci. Abbiamo attraversato il check point. Hanno cominciato a spararci. L'autista ha girato e ci hanno sparato. Siamo stati colpiti entrambi. Il mio amico Brent Renaud è stato colpito ed è rimasto lì. E lui come sta? Non lo so, non lo so. Cosa gli è successo? È stato colpito al collo e ci siamo separati, io sono stato portato qui. E chi ti ha portato? Non lo so, un'ambulanza”.

Anche sul Messaggero di Roma del 14 marzo, a pagina 5, il collega Flavio Pompetti ha scritto che “Arredondo è stato immediatamente trasportato in ospedale, sanguinante”, però in condizioni di parlare. Quanto a Brent Renaud, invece, non c’è stato nulla da fare. Il reporter del quotidiano romano ha scritto che i giornalisti che stazionano al pronto soccorso avevano saputo dal personale accorso che il filmaker era in fin di vita già al loro arrivo e che non avevano potuto fare altro che “stendere una coperta sul corpo”.

Così stanno massacrando l’informazione. Così stanno morendo anche quegli inviati di guerra e di punta insigniti di premi, di titoli e di ruoli, sfuggiti agli scenari di Iraq e Afghanistan, solo per citare gli ultimi conflitti, o al terribile terremoto di Haiti. Quella categoria “specialissima” che da Ernest Hemingway a oggi ha capito che “raccontare” è qualcosa di più di dare una notizia. È scrivere, mostrare, un libro, un film. Quegli inviati che ora con il badge al collo dei grandi giornali, come Brent Renaud trovato col “pass del New York Times”, oppure con le macchine fotografiche e le telecamere degli “indipendenti”, come era il caso del filmaker, cercano di testimoniare la storia. Non dalla parte dei vinti o dei vincitori, dalla parte del lettore, dell’utente, del fruitore. Dalla parte di chi la storia la guarda, la legge, la studia.

Questo era Brent Renaud, nato a Memphis nel Tennessee, cresciuto a Little Rock in Arkansas, dove è iniziata la scalata di Bill Clinton e dove Brent aveva la cattedra di giornalismo. La scuola di Harvard, che gli aveva conferito il premio della Nieman Foundation, è stata tra le prime a diffondere un comunicato alla notizia del decesso: “Era un professionista molto dotato e molto gentile – riporta Flavio Pompetti sul Messaggero – e il suo lavoro era infuso di umanità (come lo ha definito la curatrice della fondazione, Ann Marie Lipinski)”. La sua fine, al di là del contingente, degli sviluppi apocalittici, delle conseguenze devastanti per tutti se al più presto non ci sarà una resa che fermi questa carneficina mai vista prima d’ora, è una mancanza irreparabile. Gravissima. Il consigliere per la Sicurezza nazionale degli Stati Uniti, Jake Sullivan, l’ha definita “orribile” e ha minacciato “conseguenze adeguate” solo in merito al ferimento e alla morte dei due giornalisti. Figuriamoci il resto! La Casa Bianca, da parte sua, ha promesso “reagiremo”. Il Capo della Polizia distrettuale di Kiev, Andrei Nebitov, ha diramato in una nota l’avvertimento che stanno ammazzando “con cinica fermezza anche i rappresentanti della stampa estera” giunti per mostrare al mondo la devastazione, lo scempio e il dolore delle guerre. Perché questo faceva Brent Renaud, questa era la dote del documentarista più insignito, che coi fratelli era stato in Egitto durante la primavera araba e in Libia dopo la caduta di Gheddafi, poi nel Messico dei migranti e dei traffici degli stupefacenti. Cercava le storie individuali, gli affreschi corali, il dramma, la tragedia, la salvezza perché andava su quei fronti da coraggioso a sconfiggere il Male. Cioè, a raccontarlo, l’unico modo per vincere. È notizia di questi giorni che il sindaco di Irpin abbia vietato l’ingresso ai giornalisti. In Russia Rai e Bbc non sono più presenti. Brent è morto. Jane Ferguson, sua collega in Ucraina per conto della National Public Radio statunitense, ha scritto in un tweet: “Ditelo all’intero mondo quello che hanno fatto a un giornalista!”.

È una guerra sopportabile questa che fa milioni di profughi, che dispiega armi mai viste prima, che uccide bambini e donne incinta, giovani arruolati per resistere e poi gettati come stracci nelle strade ridotte solo a calcinacci, che usa mercenari, legioni straniere, reduci nazisti, che sta eliminando quelli che le guerre le hanno sempre raccontate, filmate, narrate. E l’Europa finanzia? L’Italia invia armi? Chi non si arrende?

 

Aggiornato il 15 marzo 2022 alle ore 17:45