Le ceneri di Pasolini ancora calde

Il 5 marzo sono ricorsi i cento anni dalla nascita di Pier Paolo Pasolini. “Il più grande poeta del Novecento”, urlò Alberto Moravia ai funerali, che si svolsero a Roma, il 5 novembre 1975. Pasolini era morto tra il 1° e il 2 novembre all’Idroscalo di Ostia, in quel modo orribile, che tutti – almeno chi ha una certa età – hanno letto e qualcuno penso riletto. Omicidio? Sicuramente. Ma chi può aver massacrato in quel modo lo scrittore friulano, l’autore delle Ceneri di Gramsci, il regista, il giornalista, il sociologo della nostra epoca? Ancora un mistero, o meglio un caso irrisolto. Dunque normale che chi fa il nostro mestiere, e oggi penso chiunque, si sia chiesto: chi è stato, o meglio come è stato? A me è capitato di pormi queste domande durante i miei approfondimenti sui fatti del Circeo. Poteva esserci una concomitanza di fattori viste le date? Quali date?

Pier Paolo Pasolini dedicò “al caso” una indagine di rilevanza storica, che sconvolse gli equilibri del Partito comunista per le tesi sull’omologazione culturale, tra borgate e quartieri alti, tra proletariato e borghesia, anticipando la degenerazione attuale e sollevando già allora parecchi dubbi. In particolare mi riferisco alla risposta che lo scrittore diede ai commenti degli intellettuali progressisti, iniziando dalla risposta ad un articolo apparso sul Corriere della Sera, l’8 ottobre 1975, firmato da Italo Calvino. “Nella Roma di oggi – scrisse Calvino – quello che sgomenta è che questi esercizi mostruosi avvengono nel clima della permissività assoluta [...] si presentano con la sguaiataggine truculenta delle bravate da caffè, con la sicurezza di farla franca di strati sociali per cui tutto è stato sempre facile”.

Pasolini sulla rivista Il Mondo, il 30 ottobre, pubblicò una replica indirizzata proprio a Calvino, dal titolo inequivocabilmente accusatorio: “Tu dici”. Lo scrittore friulano rimproverava all’amico di aver commentato quell’atroce massacro partendo da presupposti non condivisibili, come il concetto stesso di borghesia: “Tu hai privilegiato i neofascisti pariolini del tuo interesse e della tua indignazione perché sono borghesi, la loro criminalità ti pare interessante perché riguarda i nuovi figli della borghesia. Li porti dal buio truculento della cronaca alla luce dell’interpretazione intellettuale, perché la loro classe sociale lo pretende”. Ancora, tornando sull’argomento l’8 ottobre sul Corriere, scrive: “I poveri delle borgate, cioè i giovani del popolo, fanno le stesse cose che hanno fatto i giovani dei Parioli, fanno centinaia di orge che chiamano batterie, e che a volte vanno a finire male, molto male, come al Circeo.

Ma la differenza è che non finiscono in prima pagina e dietro a questa gravissima svista si va diffondendo una cancrena pericolosissima”. Il paragone di Pasolini, secondo il quale “le orge” del Circeo erano come “le batterie proletarie”, però occultate perché difese e tollerate dall’ideologia, scatenò gli intellettuali comunisti e il mondo politico, che lo attaccarono ferocemente. Ma Pasolini non si fece intimidire e portò a logica il suo anatema, sostenendo che il “nuovo fascismo”, come lo chiamava, era ciò che accumunava destre e sinistre, non più solo un’idea politica, ma “l’avere rispetto al non avere”, per cui si poteva fare tutto, anche uccidere.
Come tornano drammaticamente profetiche queste parole scagliate come ruvide pietre, che descrivono la caduta morale che viviamo, i delitti che sono centuplicati, i femminicidi che sono quotidiani, più efferati, satanici perfino, sicuramente atroci. E poi, la violenza senza confini, la depravazione elevata ad abitudine e a sistema. Ma non ascoltammo quegli avvertimenti.

Che rammarico! La presa di posizione di Pasolini produsse un vero terremoto nel mondo della cultura italiana, in particolare quella di sinistra, abituata a confezionare tesi ideologicamente compatibili anche con gli interessi del partito. Da quell’8 ottobre iniziarono per lo scrittore settimane di fuoco, che sarebbero poi state le ultime settimane della sua vita. Un crescendo drammatico di prese di posizioni, di condanne e invettive ricevute anche da amici di una vita, poiché oltre a Calvino si schierò contro anche Alberto Moravia. La cronaca di quei dissensi è nota, ricostruita da Fabio Pierangeli, docente all’università di Tor Vergata, in un libro dal titolo È finita l’età della pietà. “Fu una vera offensiva”, racconta Pierangeli nel volume. Elisabetta Rasy in un intervento su Paese Sera liquidò lui e i suoi ultimi articoli “come patetici rimpianti, paradossi giornalistici senza alcun senso, un gradino più in basso di Cuore”.

Calvino tornò sull’argomento con una lettera privata a Carlo Cassola, in cui lamentava il fatto che certi scrittori come Pasolini impazzassero sui giornali: “Intervengono troppo e inflazionano quello che hanno da dire”. Lui, il cineasta, cioè l’uomo che nascondeva dietro i suoi occhiali scuri lo sguardo delle sue ricerche, aspettò qualche settimana e poi rilanciò pubblicando un articolo su Epoca, in appoggio a una ricostruzione biografica dei tre violentatori firmata da Sandra Bonsanti. La Bonsanti, firma di Repubblica, sosteneva che “la metà dei giovani italiani fossero pure bravi ragazzi, ma grigi, nevrotici e introvertiti” e l’altra metà invece “una sorta di criminaloidi, il prodotto del fallimento della tolleranza, o meglio di una falsa tolleranza”. Un fenomeno prettamente italiano, che a Roma era diventato impressionante e addirittura tragico.

Come si batté il povero Pasolini! Davvero dobbiamo dire oggi che si schierò contro tutti, scese “in guerra” – già a quei tempi – contro il “politicamente corretto” incalzante, il doverla pensare solo in un certo modo, l’onda lunga e minacciosa che ha frantumato la nostra democrazia liberale. Davvero povero Pasolini! Nessuno lo aiutò. E finì come è finita.

Il 19 ottobre lo scrittore intervenne nuovamente sul Corriere, ribadendo la sostanziale uniformità d’azione dei giovani, la gran parte dei quali “ignora il tradizionale conflitto tra bene e male: la loro scelta è l’impietramento, la fine della pietà”. “E ciò quasi per partito preso, aprioristicamente”, scrive esattamente Pasolini, “sia che si tratti di delinquenti e sia che si tratti di bravi ragazzi infelici”. Passarono quattro giorni e sempre dalle colonne del Corriere gli rispose secco e risentito Alberto Moravia. “Il delitto del Circeo è un delitto sadico...”, obiettò l’amico. “È sadico – gli spiegò – perché è un delitto di classe, cioè il delitto di chi detiene il potere ai danni di chi non ha il potere. R.L. è stata uccisa soprattutto perché era una borgatara. D’altra parte, il delitto del Circeo è un delitto di gente repressa”.

Pasolini, insomma, marcò le distanze e spiegò che il suo non era un racconto teorico, perché diceva di conoscere bene la realtà dei fatti. E per dare prova delle sue posizioni spiegò di conoscere di persona il fratello dell’altra vittima. Lo descrisse come “un ragazzo angosciato, con la macchina da corsa e l’ambizione di fare l’operatore cinematografico”. Successe il finimondo, sia nell’ambiente intellettuale comunista, sia nei ranghi del partito, soprattutto tra le femministe. La base inveì con rabbia indicibile, ai livelli più alti ci fu chi cercò di metterla sul dibattito, ma dentro il partito per Pasolini si era consumata una frattura insanabile e partì “la scomunica”, che finì col coincidere con la condanna. A distanza solo di pochi mesi dal dibattito pubblico sui principali giornali dell’epoca lo scrittore, il poeta, tutto, l’amico, l’ambiguo, ciò che era o era stato, fu spietatamente ucciso quel 2 novembre 1975, all’Idroscalo di Ostia.

In una carneficina di ossa e di carne per cui ai magistrati fu difficile leggere gli atti dell’autopsia. In quale agguato e perché? Sul caso sono in corso ancora indagini. Soprattutto da quando Pino Pelosi, indicato come “il ragazzetto”, cioè “il ragazzo di vita” che quella sera Pasolini fece salire sulla sua auto e con cui fu visto andar via, poi indicato come “il responsabile” e condannato con sentenza definitiva, scontata la pena, ha ammesso che ci furono altri sulla scena e che Pasolini morì “per le bastonate”. Su Raitre nel 2005, e poi in una libreria nel 2011 insieme con Walter Veltroni, il quale anche lui aveva pubblicato un libro, Pelosi fece ammissioni agghiaccianti: “Erano in sei quella notte. Mentre uno mi teneva bloccato due colpivano con le mazze. Pasolini gridava “aiuto mamma, aiuto”. Una scena feroce.
Nella ricorrenza del suo Centenario si può ancora fingere di non sapere o di non voler capire? La morte di Pasolini è strettamente legata alle sue posizioni sul Circeo. Contestato. Aggredito. Isolato. Punito.

Perché spiegava! Spiegava il “movente politico” dei fatti. A chi? Al Partito Comunista, che come impazzito dall’enormità dell’accusa prima lo scomunicò verbalmente e poi lo dimise dai suoi ranghi. Pasolini anticipava “la cancrena” dei nostri giorni, cioè diceva agli intellettuali “guardate, che non ci sono più differenze tra proletariato e classe dominante, i giovani fanno tutti gli stessi riti, quello che è accaduto al Circeo non è sopraffazione di maschi fascisti, nelle borgate si fa di più e di peggio e il degrado morale devasterà la cultura italiana, la democrazia e la libertà”.

Mio padre, “Enzo” Papi come era conosciuto nell’ambiente, che aveva lavorato sui set con lo scrittore-regista, mi dava anche un’altra versione da quella poi circolata sull’intellettuale-omosessuale. Anzi, mi esortò che non mi uscisse mai detto questo. Perché Pasolini gli spiegava che frequentava i ragazzi delle borgate per i suoi documentari, per stimolare una consapevolezza lì, dove si sarebbe abbattuta la più devastante “liberazione”. Divorzio, aborto e omosessualità. Non siamo forse agli scandali sulla pedofilia e agli escort che nemmeno fanno notizia? Papà parlava molto di questi argomenti e di quel periodo del cinema. Per esempio, Salò e le 120 giornate di Sodoma: mi spiegava la genesi di quell’opera, che sarebbe interessante rileggere sotto questo profilo. La prima parte di una “Trilogia”, che però non vide luce, presentata postuma al Festival di Parigi, il 22 novembre 1975, che sollevò polemiche asprissime, processi, discussioni, censure, ritiro dalle sale, per una definitiva consacrazione nel 1978.

“Salò” è considerato “il testamento morale di Pasolini” nel cinema come in letteratura”. Le ceneri di Gramsci sono invece una raccolta di poesie centrali per comprendere la posizione pasoliniana. Datata 1954-1956 inizia così: “Non è di maggio questa impura aria”. Il poeta, immaginandosi a colloquio con la tomba di Antonio Gramsci, osservava che era lontano “il maggio italiano” nel quale il giovane rivoluzionario di allora collocava “l’ideale che illumina”, ma che tutto si era fatto tedioso e silenzioso. Versi di foscoliana memoria, in cui Pasolini formalizzò la sua battaglia: “Attratto da una vita proletaria / a te anteriore, è per me religione / la sua allegria, non la millenaria / sua lotta: la sua natura, non la sua / coscienza”.

A prova del coinvolgimento di “ignoti” all’Idroscalo di Ostia secondo le indagini furono riscontrate macchie di sangue con tracce di Dna estraneo a Pelosi, ritrovate poi anche sui vestiti della vittima e, sempre secondo gli specialisti delle attività tecnico-scientifiche, riconducibili a “complici”. Delitto Pasolini, ecco il titolo che si sarebbe dovuto dare alle celebrazioni. Perché c’è anche un altro capitolo da considerare. E cioè “lo scrittore contro i poteri forti”, che diceva “io so, ma non ho le prove” in riferimento all’opera – anche questa “non finita” – “Petrolio”, indicata dallo stesso Moravia come “la summa delle esperienze pasoliniane”. Ho letto in questi giorni un’appassionante intervista di Dacia Maraini, all’epoca dei fatti compagna di Moravia, che dice le stesse cose. “Era un anarcoide…Non può essere stato Pino Pelosi da solo. Pelosi era un ragazzino; Pier Paolo era forte, allenato. L’hanno ucciso altre persone”.

 

Aggiornato il 10 marzo 2022 alle ore 09:57