La Cassazione “sull’inchino” nelle processioni davanti alle abitazioni dei boss

Una recente pronuncia della 3ª sezione penale della Corte Suprema, nel confermare la condanna per violazione dell’articolo 405 del Codice penale a carico del “capo-vara” di una processione, fermata per un “inchino” di fronte all’abitazione di Riina-Bagarella a Corleone, rafforza la tutela del sentimento religioso da odiose strumentalizzazioni, funzionali al consolidamento del consenso mafioso. La sentenza della 3ª Sezione penale della Cassazione n. 2242 del 20 gennaio 2022, decisa al termine dell’udienza del 15 ottobre 2021, affronta l’ennesimo episodio di “inchino” della statua di un santo condotta in processione lungo le vie di un piccolo comune di fronte alla casa di un boss mafioso. Tale fatto non è stato giudicato come meramente apologetico verso una consorteria criminale: si è riconosciuta, infatti, una sua portata lesiva verso il bene giuridico del sentimento religioso. Le implicazioni di una simile pronuncia oltrepassano i confini delle aule di giustizia, poiché interessano tutta la cittadinanza e l’intera comunità dei credenti. L’episodio denunciato alla magistratura è ben lungi dall’essere il primo, potendosi dar conto di una sorta di consuetudine contra legem – nonché, aggiungiamo, contra ius canonicum e contra moralem laxam doctrinam – consistente nell’arresto della processione di fronte alla casa del boss locale della malavita a fini di omaggio verso quest’ultimo.

Il fercolo o la vara, vale a dire la portantina o l’impalcatura sulla quale poggia la statua del santo, vengono leggermente inclinati di fronte alla facciata o al balcone dell’abitazione su indicazione del capo-vara, vale a dire colui che è deputato dal parroco o dal comitato dei festeggiamenti a dare indicazioni sui movimenti da effettuare: in sostanza, si simula un vero e proprio inchino. Tale prassi si è affermata prevalentemente in piccoli centri in cui le consorterie criminali esercitino un potere di fatto e incutano un timore tali da spingere parte della cittadinanza a omaggi simbolici che, in esercizio di fede e di recta ratio, non andrebbero riservati neanche ai titolari di poteri legittimi (figurarsi a criminali). Simili pratiche appaiono quindi in grado di coniugare, nell’ottica di un fedele cattolico, criminalità e blasfemia. L’episodio di cui alla sentenza assume contingentemente una gravità ulteriore se si considera che il centro in questione è Corleone, la casa davanti alla quale il santo è stato fatto inchinare quella della famiglia Riina-Bagarella. Non solo: i santi “inchinati” davanti alla casa del capo mafioso erano Giovanni Battista ed Evangelista, entrambi distintisi in vita – e per questo andati incontro a prigionia e martirio – proprio per il rifiuto di compiacere i potenti dell’epoca.

Ben lontana da una certa immagine stereotipica veicolata da cinematografia e televisione – la quale ha senz’altro dei riscontri reali, confinabili tuttavia a episodi degenerati e a singoli pastori infedeli alla loro missione – la Chiesa si è da tempo preoccupata di affrontare la questione, sia con risposte simboliche quali l’abbandono delle processioni che degenerano da parte del ministro del culto presente, sia con denunce alle forze dell’ordine – spesso presenti al fatto – e all’autorità giudiziaria. La vicenda giunta di fronte alla 3ª Sezione penale della Cassazione origina da una congiunta risposta delle autorità civili ed ecclesiali. La risposta della magistratura, consistente nel riconoscere i presupposti del delitto di cui all’articolo 405 del Codice penale, non è limitata alla Suprema Corte, che tuttavia ha avuto il ruolo di farla assurgere a giurisprudenza di legittimità e di dotarla di valore nomofilattico. Il delitto era stato ascritto già dalle istanze di merito; il Tribunale di Termini Imerese aveva irrogato una pena di sei mesi di reclusione, confermata dalla Corte d’appello di Palermo. L’imputato, appellante e ricorrente, era il cosiddetto capo-vara di una processione, imparentato con la famiglia Bagarella e, per tale tramite, con la famiglia Riina. Prima di entrare nel merito delle motivazioni della Corte, conviene accennare alla fattispecie in concreto contestata all’imputato.

Il reato di cui all’articolo 405 del Codice penale è rubricato Turbamento di funzioni religiose del culto di una confessione religiosa; spesso ci si riferisce ad esso con lo storico nome di turbatio sacrorum, più sintetico e al contempo idoneo a sottolinearne la profondità delle radici storiche, riconducibili almeno al diritto romano tardoantico. Esso è collocato nel libro II, titolo IV, capo I (articoli 402-406) del codice, intitolato Dei delitti contro il sentimento religioso. Nel Codice Zanardelli, la turbatio sacrorum era prevista e punita dall’articolo 140. La disposizione letterale recitava: “Chiunque, per offendere uno dei culti ammessi dallo Stato, impedisce o turba l’esercizio di funzioni o cerimonie religiose è punito con la detenzione sino a tre mesi e con la multa da lire cinquanta a cinquecento”. Il comma 2 aggravava la pena (tre-trenta mesi di reclusione, 100-1500 lire di multa) se il fatto era commesso con violenza, minaccia o “contumelia”, termine che sarebbe stato sostituito, nella legislazione successiva, con “vilipendio”. Il delitto poneva su un piano di parità tutti i culti consentiti dalla legge, similmente a quanto avviene nel diritto vigente.

Nella formulazione originaria del Codice Rocco, l’articolo 405 del Codice penale era intitolato “turbamento di funzioni religiose del culto cattolico” e sanciva “Chiunque impedisce o turba l’esercizio di funzioni, cerimonie o pratiche religiose del culto cattolico, le quali si compiano con l’assistenza di un ministro del culto medesimo o in un luogo destinato al culto, o in un luogo pubblico o aperto al pubblico, è punito con la reclusione fino a due anni”. L’articolo 406 estendeva la punibilità per i fatti commessi in danno dei culti ammessi, con una diminuzione della pena. Le due norme risultavano coerenti con il tenore letterale dell’articolo 1 dello Statuto Albertino – che dichiarava il cattolicesimo religione ufficiale del Regno – e con il Concordato fra Chiesa cattolica e Stato italiano a seguito dei Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929. Esse sarebbero invece risultate in (parziale) antinomia gerarchica con la parità dei culti sancita dalla Costituzione della Repubblica, la quale si colloca in un’ottica di neutrale laicità rispetto ai culti, riconoscendone tuttavia una loro dimensione di libertà positiva, identificando un bene giuridico – sulla quale si tornerà – che ne giustifica comunque la tutela penale dalle offese più plateali o violente. La declaratoria di incostituzionalità di un’altra delle norme del capo – l’articolo 402 del Codice penale – per mezzo della sentenza della Corte Costituzionale n. 508 del 20 novembre 2000 avrebbe spinto il legislatore a riformare i delitti contro il sentimento religioso mediante la legge 24 febbraio 2006 n. 85, parificando tutte le confessioni religiose. Di qui la formulazione attuale della disposizione: “Chiunque impedisce o turba l’esercizio di funzioni, cerimonie o pratiche religiose del culto di una confessione religiosa, le quali si compiano con l’assistenza di un ministro del culto medesimo o in un luogo destinato al culto, o in un luogo pubblico o aperto al pubblico, è punito con la reclusione fino a due anni”. La pena è aggravata (uno-tre anni) qualora il fatto sia commesso con violenza o minaccia.

Senza indugiare nelle definizioni di dettaglio, conviene individuare il nucleo essenziale della questione di diritto: si può considerare turbata o impedita la processione per due brevi fermate di pochi secondi di fronte ad una casa, per quanto tristemente nota? La Corte di Cassazione ha risposto affermativamente, così come le corti di merito prima di essa, superando una lettura esclusivamente materiale di turbamento o impedimento che sembrava essere favorita da parte della dottrina e dalla pur non cospicua giurisprudenza in materia, facendo un attento riferimento al bene giuridico protetto. Il bene giuridico protetto viene individuato, sulla base degli articoli 2, (7), 8 e 19 della Costituzione – ma anche, più indirettamente, degli articoli 3 e 20 della Costituzione – nella libertà positiva di pratica della religione, nello specifico della religione cattolica. La dimensione positiva impone un dovere di protezione di tale diritto di libertà, poiché individua un bene giuridico di livello finale consistente nelle pratiche singolari, e soprattutto – in virtù della loro dimensione pubblica – comunitarie di professione religiosa. Un simile bene giuridico si spinge ben al di là del suggerimento offerto dalla rubrica della subpartizione codicistica nella quale si colloca l’articolo 405 del Codice penale, orientato a proteggere un bene del tutto immateriale e individuale-interiore quale il “sentimento” religioso, assurgendo a una dimensione concreta, tutelabile per mezzo degli strumenti del diritto penale.

Tale professione è da garantirsi, quindi, non solo da turbamenti materiali dello svolgimento di funzioni religiose – quali l’ostacolo al percorso di una processione o l’interruzione di una Messa con gesti eclatanti – ma anche dalla “strumentalizzazione della funzione a scopi totalmente contrari al sentimento religioso di chi vi prende parte”. La processione dei santi, che costituisce una “cerimonia” o una “pratica” aggiuntiva rispetto alle funzioni “essenziali” del culto quali la Messa, che comporta in via di norma l’assistenza di un ministro del culto stesso, non può che avere un senso, come peraltro suggerito dal diritto canonico (Canone 944 § 1 Codex I. C.): onorare la vita, la memoria storica, l’esempio e l’insegnamento dei santi, esprimendo per tale tramite un atto di adorazione e di preghiera del Dio cristiano. In considerazione di un simile scopo, come anticipato, l’inchino di un santo di fronte a qualsiasi abitazione sarebbe da considerare un atto offensivo della pratica religiosa cristiana-cattolica: stride con la venerazione di un santo e, per suo mezzo, della divinità la pur simbolica “prostrazione” davanti a un essere umano.

La circostanza che il destinatario dell’inchino fosse un boss mafioso responsabile di delitti efferati, nonché di un profondo inquinamento della vita sociale di ampie aree del Paese, aggrava ulteriormente il fatto. L’inchino davanti alla sua abitazione sottende, in modo neanche troppo simbolico, un tentativo di asservimento della religione cristiana-cattolica e del suo portato di valori – o di un concetto invero assai distorto degli stessi – a un sistema di profitto a tutti i costi, di violenza, di corruzione, di sopraffazione, di costante e compiaciuta violazione o elusione delle leggi e, per loro tramite, dei beni essenziali della vita di una società. La stessa Corte dà atto di questo profilo nel punto 4.9 del Considerato in diritto: “rileva la materialità del gesto che, interpretato dalla Corte d’appello, con motivazione tutt’altro che illogica, come ossequio ad un esponente di spicco della criminalità mafiosa, ha strumentalizzato una processione religiosa a fini del tutti contrari al sentimento di coloro che vi partecipavano e comunque ai valori universalmente espressi e riconosciuti dalla religione cattolica, sovvertendoli completamente e integrando a tutti gli effetti il reato contestato”.

Si può salutare con notevole favore una decisione basata su un simile iter logico-argomentativo. Essa offre un utilissimo strumento di difesa e di reazione per i pastori che sono coerenti con la loro missione poiché amministrano comunità locali e chiese “di frontiera”, collocate in territori a forte infiltrazione mafiosa. L’interpretazione confermata dalla giurisprudenza di legittimità dissipa ogni possibile dubbio circa la possibilità di ricorrere all’articolo 405 del Codice penale quale base giuridica per denunciare fatti di utilizzo di pratiche e cerimonie religiose al fine di rafforzare il potere mafioso sul territorio e sulla comunità, specie se corredato dalla circostanza aggravante del metodo mafioso (articolo 416-bis.1 co. I del Codice penale) anche al fine di incrementare le modeste pene previste in relazione al delitto in esame.

Da un simile strumento di retribuzione, unitamente a opportune prassi di prevenzione, possono trarre vantaggio tutti gli attori in campo. Lo Stato e la collettività potranno sottrarre alle associazioni di tipo mafioso uno strumento di cui si sono ripetutamente servite per conquistare il consenso e la soggezione delle popolazioni. In questo senso, si sottolinea ancora una volta l’importanza di non aver limitato il giudizio di disvalore alla pubblica apologia di un boss mafioso, ma alla diretta infrazione del sentimento religioso: per mezzo del giudice di legittimità, lo Stato ha dimostrato di poterlo e volerlo tutelare direttamente. D’altronde, come suggerisce lo stesso testo dell’articolo 416-bis Codice penale, se la costituzione dell’associazione mafiosa offende il bene giuridico dell’ordine pubblico, l’obiettivo della stessa è da individuarsi nel “commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri (etc.)” (comma 3): nell’ottica della teoria del bene giuridico, appare evidente che tale delitto tenda all’offesa nei confronti di altri beni giuridici protetti, i quali pertanto richiederanno un’attenzione particolare da parte degli organi dello Stato.

Il sentimento, o rectius la libera pratica del culto entra a pieno titolo a far parte di essi. La Chiesa – così come ogni altra organizzazione confessionale che dovesse trovarsi ad affrontare problemi del genere – potrà scardinare una prassi blasfema e rivelare il messaggio cristiano nella sua più limpida genuinità, senza che sia lordato dalle distorsioni di chi ha in mente altro, magari con la cooperazione di eventuali ministri del culto pavidi, o peggio di “lupi travestiti da pastore”. Le Diocesi dispongono di istituti di diritto canonico idonei all’assunzione di misure di prevenzione: il canone 944 del Codex Iuris Canonici, al § 2, afferma che “spetta al Vescovo diocesano stabilire delle direttive circa le processioni, con cui provvedere alla loro partecipazione e dignità”. Un primo passo potrebbe consistere nel vietare di offrire incarichi nei comitati e nelle processioni a parenti e amici di mafiosi che non abbiano palesemente preso le distanze dalla consorteria criminale, in considerazione dei vincoli personali e familiari che tali associazioni per delinquere costituiscono fra gli adepti e i loro familiari.

Pro futuro, sarebbe inoltre auspicabile che la giurisprudenza rotale, se investita del caso, dichiarasse ogni singola cosca alla stregua di “associazione, che cospira contro la Chiesa”, punendo con l’interdetto “chi poi tale associazione promuove o dirige” (canone 1374 Codex I. C.). Tanto si porrebbe in perfetta coerenza con il magistero del Santo Pontefice Giovanni Paolo II, nonché con quello di Papa Francesco il quale ha espressamente scomunicato i mafiosi ferendae sententiae. Il sacrificio di uomini di Chiesa come Giuseppe Diana ed il Beato Giuseppe Puglisi, così come di uomini di Stato profondamente credenti come Piersanti Mattarella, Paolo Borsellino ed il Beato Rosario Livatino, esige ed impone un impegno in tal senso. Il fatto che i martiri si contino sia fra i laici che fra gli ecclesiastici non può non parlare alle nostre coscienze di cittadini, e a maggior ragione di cristiani.

(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino

Aggiornato il 03 marzo 2022 alle ore 12:01