Perché è difficile ridurre le tasse a chi lavora

In Italia poco più di sei persone su dieci in età lavorativa hanno una occupazione. Per la precisione, lavora il 63,7 per cento degli italiani compresi nella fascia di età 15-64 anni, contro una media europea del 76 per cento. Gli occupati complessivi rispetto alla popolazione sono meno di 23 milioni, su 60 milioni di italiani. Praticamente, lavora una persona su tre. Il nord, da solo, ha tanti lavoratori quanti il centro e il sud messi insieme, attestandosi a livelli europei. Le differenze sono ancora più accentuate se si guarda al mondo femminile: al sud sono occupate circa tre donne su dieci (32,3 per cento), mentre al nord sono quasi sei su dieci (58,1 per cento).

Le percentuali del nostro Mezzogiorno non hanno riscontro in nessun altro paese europeo, anche Grecia, Bulgaria e Romania fanno meglio (e non di poco). Il dato fornito da Eurostat è impietoso ed evidenzia il male oscuro del sud. A questi dati non è estraneo il discorso della tassazione sul reddito, che grava sulle spalle di quel terzo degli italiani che ha una occupazione. Risulta evidente la differenza con la Germania, dove il tasso di attività della popolazione in età lavorativa è dell’80 per cento, con la possibilità quindi di spalmare le imposte sul reddito su un maggior numero di persone rispetto al nostro striminzito 63,7.

Questo è uno dei motivi, non certo il solo, per cui è difficile ridurre la tassazione sul lavoro. Senza un aumento significativo dell’occupazione, il peso fiscale continuerà a gravare principalmente su chi ha un lavoro, cioè su un terzo della popolazione. L’incremento dell’occupazione non è, quindi, solamente un fattore di equità, ma anche uno strumento per accrescere il prodotto interno e, con esso, la platea dei contribuenti che in Italia è straordinariamente limitata rispetto ai nostri vicini europei.

Aggiornato il 16 febbraio 2022 alle ore 11:00