Sanremo 2022, tutti vogliono essere donna

Ogni Sanremo ha la sua provocazione. Funziona così fin dalla prima edizione 1951, quando vinse Nilla Pizzi con Grazie dei fiori. Le stecche, i brani arditi, i monologhi, le clamorose esclusioni, le gaffes e le trasgressioni rappresentano la griffe dell’epoca. È la specialità del Festival: moda e modi, una fenomenologia. Con la direzione artistica di Amadeus, dopo Claudio Baglioni, prosegue il sociale impegnato e dunque quest’anno si può dire che i filoni siano tre: l’orgoglio fluido, i brividi Lgbt, il cross dressing. Rotto il confine con Achille Lauro e i Maneskin tra etero e omo non fa più scalpore la miscellanea di generi evanescenti o asessuati e se non fosse per il sorriso maschio di Matteo Berrettini e per la gioiosa normalità di Cesare Cremonini si direbbe che il maschio sia morto. Il maschio come lo si intendeva ai tempi di Mimmo Modugno, Al Bano e Claudio Villa. Il terzo genere ha preso forma e spazio e accanto al femminile e maschile ci sono i waterproof, i laccati, gli efebi paradisiaci e le varie Greta Garbo. Come diceva il video del nipote alternativo alla nonna sprint “sei contenta nonna che sono gay?”.

 Nessun imbarazzo a nessuna età. Come ha raccomandato anche Papa Francesco di non abbandonare i figli che passano il confine. Il tema Lgbt sta diventando perfino banale così che per sfondare occorre calcare la mano. Il travestitismo, o meglio il cross dressing, è l’ultimo baluardo. Anche in passerella gli uomini con abiti femminili e le donne–uomo sono le nuove proposte. Scambio di ruoli nella crisi che avanza fino a rendersi impercettibili, indistinti, diseguali alla nascita. La sfida dell’umanità del prossimo futuro: scompaginare il dualismo, abolire la rigida nomenklatura del maschile e femminile per nuove declinazioni che vanno oltre l’omosessualità e il sesso e diventano generi di un cielo calato e di angeli caduti sulla terra di Eva ed Adamo. Una sorta di contro spiritualismo, che affonda nelle viscere sanguigne della violenza di genere. Dimenticare l’Eden e scalare la montagna con un cuore nuovo. Riuscirà l’umanità a cancellare il peccato e ad affrancare l’umano?

I corpi disegnati come quello di Achille Lauro, i volti dipinti delle Band, le trasparenze su figure esilissime come quella di Blanco in coppia con Mahmood suggeriscono questa catarsi. Accanto restano eterosessualità fluttuanti come quella di Elisa e Noemi, eroine celtiche dell’irrazionale contemporaneo. Insomma, in cantina i Festival di Mina e Toto Cutugno, anche se resistono Iva Zanicchi, Orietta Berti, Massimo Ranieri e l’eterno Gianni Morandi che canta Jovanotti ai primi posti della classifica. La novità è sicuramente Drusilla Foer, “imbustata” come hanno scritto in abiti accollati e severi, che del travestitismo fa recitazione. D’altro canto è moda antica: ai tempi di Shakespeare le donne non potevano calcare il palcoscenico e dunque il teatro femminile attingeva a queste combinazioni. E di travestitismo è pieno il Novecento. L’intuizione di Drusilla Foer è quella di fare testo, non manifesto e propaganda. Dove c’è talento non c’è discriminazione.

Anche nel monologo sull’ “unicità” Drusilla ha stroncato un’omologazione: “Non mi piace dire diversità. Unicità mi piace, piace a tutti, perché tutti noi siamo capaci di notare l’unicità dell’altro e tutti pensiamo di essere unici. Ma per comprendere e accettare la propria unicità è necessario capire di cosa è fatta, di che cosa siamo fatti noi, certamente delle cose belle, ambizioni, valori, convinzioni, talenti (...) Non è affatto facile ma vanno prese per mano tutte le cose che ci abitano e portate in alto, nella purezza della libertà”. La Foer usa un nome d’arte che evoca la leggendaria Drusilla consorte di Cesare Ottaviano Augusto, figura di mistero, potere e una storia ancora da svelare. È il segreto del femminile, dal mito all’immortalità, come il fascino di Ornella Muti. E tutti vogliono essere donna.  


    

Aggiornato il 06 febbraio 2022 alle ore 14:10