Il caso “Rackete”: le leggi esistono, ma non sono applicate

Il provvedimento con il quale il Gip del Tribunale di Agrigento, il 20 dicembre 2021, ha disposto l’archiviazione del procedimento penale ancora pendente a carico della “capitana” Carola Rackete per i reati di favoreggiamento aggravato dell’immigrazione clandestina e disobbedienza a nave da guerra era quanto di più prevedibile si potesse immaginare, alla luce del precedente costituito dalla sentenza della Cassazione n. 6626 del 16 gennaio 2020. Pietro Dubolino, presidente emerito di sezione della Corte di Cassazione spiega perché si tratta di decisioni assai opinabili.

Con tale pronuncia, adottata su ricorso del pubblico ministero avverso la mancata convalida dell’arresto della stessa “capitana” per i reati di resistenza a pubblico ufficiale e violenza a nave da guerra, consistiti nell’aver speronato, con la nave Sea Watch, di cui era al comando, una motovedetta della Guardia di finanza – che, come da ordini ricevuti, aveva cercato di impedirle l’attracco al porto di Lampedusa – era stato affermato che Carola Rackete non dovesse rispondere di tali reati in forza della causa di giustificazione prevista dall’articolo 51 del Codice penale, avendo essa agito “nell’adempimento di un dovere”. Il dovere era quello derivante dalle Convenzioni internazionali, tra cui in particolare la Convenzione di Amburgo del 1979, recepita in Italia con legge 3 aprile 1989 n. 147 (cosiddetta “legge del mare”), in base alla quale il comandante di qualsiasi nave ha l’obbligo di prestare soccorso a quanti si trovino in mare in condizioni di pericolo e di condurli nel più vicino “luogo sicuro” (“place of safety”). Quest’ultimo sarebbe stato, secondo la Cassazione, legittimamente individuato da Rackete nel porto di Lampedusa, dovendosi ritenere “non sicuri” tutti i porti della costa libica, dalla quale avevano preso il mare, con l’obiettivo di raggiungere, in un modo o nell’altro, l’Italia, numerosi “migranti” che erano stati poi soccorsi e presi a bordo dalla Sea Watch. Di qui, per conseguenza, la ritenuta operatività della stessa causa di giustificazione anche con riguardo ai reati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e di disobbedienza a nave da guerra, commessi nell’ambito della medesima vicenda, e per i quali Rackete era stata denunciata a piede libero.

Il provvedimento di archiviazione, come pure, a suo tempo, la citata sentenza della Cassazione, sono stati accolti, com’è noto, con entusiastico favore dalla vasta galassia dei partiti, organi di informazione, associazioni, movimenti, e così via, pregiudizialmente favorevoli all’immigrazione incontrollata. Per essi è fuori discussione l’equazione “dovere di soccorso = dovere di accoglienza”, su cui si basano, nell’essenziale, le pronunce giudiziarie in discorso, e in forza della quale si ha buon gioco nel sostenere che escludere il secondo dei detti doveri significa anche contravvenire al primo. A rischio di apparire presuntuosi, va detto chiaro e forte che quell’equazione non ha, in realtà, il minimo fondamento giuridico. Vediamo perché.

Il dovere di soccorso, la cui assolutezza e inderogabilità non conosce eccezioni, è stato stabilito dalla cosiddetta “legge del mare” a tutela non dei “migranti” ma di quanti, trovandosi in mare per una qualsiasi ragione, corrano pericolo per la loro vita o la loro incolumità personale. Ciò comporta che per “luogo sicuro” nel quale il soccorritore ha poi l’obbligo di condurre le persone tratte in salvo deve intendersi non quello in cui le stesse, se e in quanto qualificabili come “migranti”, abbiano la garanzia che possano essere presentate ed esaminate eventuali richieste di asilo o di protezione internazionale, ma soltanto quello nel quale, come espressamente stabilito nelle linee guida elaborate nel 2004 dall’Imo (International maritime organization), “le operazioni di soccorso si considerano concluse, e dove: la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte; e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale”.

Questo non significa, naturalmente, che sia destinata a rimanere necessariamente ignorata l’esigenza di assicurare, per quanto possibile, alle persone soccorse che siano anche “migranti”, la possibilità di presentare richieste di asilo o di protezione internazionale. Significa soltanto che di essa non può e non deve darsi carico il comandante della nave soccorritrice, il quale deve invece, di regola, attenersi all’indicazione del “luogo sicuro” che, sempre secondo le “linee guida” dell’Imo, deve essergli fornita dal governo o da altra autorità dello Stato responsabile della zona Sar in cui è avvenuto il recupero. A darsene carico – su eventuale segnalazione dello stesso comandante – dovrebbe essere invece la competente autorità dello Stato di bandiera della nave soccorritrice, dal momento che quest’ultima è da considerare, a tutti gli effetti, come territorio del medesimo Stato.

Essa e solo essa, quindi, avrebbe titolo per fornire al comandante le opportune istruzioni sul come gestire la situazione dei “migranti”. Come pure è la stessa autorità quella che dovrebbe assumersi il compito e la responsabilità di autorizzare il comandante a non attenersi all’indicazione del “luogo sicuro” fornita dallo Stato responsabile della zona Sar – che nella specie era la Libia – quando ritenga che manchi, in realtà, taluna delle condizioni previste dalle citate Linee guida Imo, impartendogli, anche in questa ipotesi, le opportune istruzioni. Nell’uno e nell’altro caso, fra tali istruzioni potrebbe anche esservi quella di dirigersi verso un porto di uno Stato diverso, a condizione però di aver preventivamente chiesto ed ottenuto – senza poterlo pretendere – il consenso dello Stato medesimo.

Alla stregua di tali considerazioni, deve dunque escludersi che i comandanti delle navi Ong, come pure di qualsiasi altra nave che effettui il soccorso di quanti versino, trovandosi in mare, in condizioni di pericolo (migranti o non migranti che essi siano), abbiano poi titolo per disattendere, di loro iniziativa, l’indicazione del porto che, come “luogo sicuro”, a essi sia stata fornita dalla competente autorità dello Stato responsabile della zona Sar in cui è avvenuto il recupero. Meno che mai può ammettersi che abbiano titolo per individuare essi stessi il diverso porto verso il quale dirigersi per poi pretendere di farvi sbarcare le persone soccorse.

D’altra parte, non può neppure dirsi che, a far ritenere giudizialmente accertato il fatto che siano “non sicuri” tutti i porti della Libia, ivi compreso quello di Tripoli, che pur risulta aperto al normale traffico di merci e passeggeri, siano sufficienti le pubbliche denunce delle stesse Ong che si dedicano stabilmente alla raccolta dei “migranti” provenienti dalle coste libiche, e neppure quelle di altri organismi, compreso lo stesso commissariato dell’Onu per la tutela dei rifugiati (Unhcr), dalle quali tutte risulterebbe che i “migranti”, giunti in Libia da altri paesi nella speranza di poter poi raggiungere, via mare, l’Italia o altri paesi europei, sarebbero sottoposti a sistematiche e gravi violazioni dei più elementari diritti umani. Anche a fronte di tali denunce, infatti, siccome non dirette specificamente all’autorità giudiziaria, quest’ultima sarebbe tenuta, secondo le regole generali, a indicare, con apposita motivazione, le specifiche ragioni non solo della loro attendibilità in generale, ma anche della loro ritenuta idoneità a costituire prova della effettiva sussistenza della dedotta causa di giustificazione del reato per cui si procede, con riferimento a tutte le proprie e peculiari circostanze del caso concreto.

Tanto più sarebbe stata necessaria una tale motivazione (che risulta, invece, del tutto mancante), in quanto, a far sorgere almeno un qualche ragionevole dubbio circa la fondatezza delle denunce in questione, se non altro sotto il profilo della estensione delle situazioni in esse descritte a tutti indistintamente i “migranti” che si trovino in qualsiasi parte del territorio libico, dovrebbe essere, tra l’altro, il fatto che il governo italiano, da parte sua, con il sostegno di una maggioranza che comprende anche partiti notoriamente assai propensi all’accoglienza senza limiti dei “migranti”, oltre che con l’avallo dell’Unione europea, finanzia ed assiste ufficialmente la Guardia costiera libica perché si dia carico di intercettare e ricondurre sulle coste della Libia i “migranti” che da esse si siano messi in mare per raggiungere l’Italia.

Qualche altro dubbio, inoltre, sarebbe potuto sorgere ricordando il caso della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo 23 febbraio 2012, Hirsi contro l’Italia, con la quale l’Italia venne ritenuta responsabile di un illegittimo respingimento collettivo verso la Libia di “migranti” intercettati nel Mediterraneo per la sola ed esclusiva ragione (peraltro assai discutibile) che tale respingimento sarebbe stato assimilabile a una “espulsione collettiva”, come tale vietata dall’articolo 4 del protocollo aggiuntivo n. 4 alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo: non, quindi, perché vi fosse stata violazione della “legge del mare” a cagione del carattere “non sicuro” dei porti libici verso i quali il respingimento era stato effettuato. L’eventuale sussistenza di tale carattere “non sicuro”, poiché implica la negazione dei più elementari diritti umani tra i quali, con ogni evidenza, anche quello di libera comunicazione con il resto del mondo, difficilmente sarebbe stata compatibile con il fatto, risultante dalla stessa sentenza della Corte europea, che proprio dalla Libia, dove erano stati respinti, i “migranti” avevano avuto modo di promuovere, con la necessaria assistenza di legali da loro nominati, l’azione giudiziaria contro l’Italia.

Last but not least, vi è infine da dire che, anche ad ammettere che i “migranti” raccolti dalle navi delle Ong al largo delle coste libiche non potessero essere riportati al luogo di partenza, perché da ritenere “non sicuro”, ma dovessero essere condotti verso un porto italiano, ciò non potrebbe in alcun modo valere ad escludere la configurabilità, a carico delle stesse Ong, del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, quale previsto dall’articolo 12 commi 1, 2 e 3 del Decreto legislativo n. 286/1998. Tale reato è da ritenere sussistente ogni qual volta risulti – come, di fatto, risulta, in modo assolutamente pacifico, nella gran parte dei casi – che la raccolta dei “migranti” in situazione di pericolo non sia frutto di un occasionale incontro, ma di una programmata attività concepita proprio in funzione di un supporto da fornire all’immigrazione clandestina, consistente nel pubblicizzato stazionamento delle navi in prossimità dei luoghi di partenza dei “migranti” a bordo di imbarcazioni di fortuna, in modo che sia loro garantita la sicurezza di essere tratti in salvo non appena vengano a trovarsi, come già previsto, in pericolo di naufragio.

A questo punto la punibilità delle Ong a titolo di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina non deriverebbe certo – come pretestuosamente si vorrebbe far credere nella “vulgata” immigrazionista – dall’avvenuto salvataggio delle persone in pericolo, essendo questo sempre e comunque doveroso e pertanto insuscettibile di sanzione. Esso deriverebbe dal fatto che in detto pericolo quelle persone mai si sarebbero trovate se non fossero state indotte ad affrontarlo proprio contando sulla presenza delle navi già predisposte per il soccorso. Questa presenza viene quindi a costituire un determinante contributo consapevolmente offerto dalle Ong agli organizzatori dei “viaggi della speranza”, tale da poterle far ritenere concorrenti con costoro, noti o ignoti che siano, nel reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: senza quel contributo, essi non si sarebbero indotti a commetterlo, ovvero lo avrebbero fatto procurando la disponibilità di mezzi almeno potenzialmente idonei a compiere la traversata del mare.

Ciò, del resto, corrisponde puntualmente a quanto in gran parte risulta già avvenuto nel breve lasso di tempo in cui l’attività delle Ong è stata fortemente ostacolata, pur se non del tutto impedita, per effetto della scelta politica adottata dal Governo dell’epoca, in coincidenza della quale si registrò, di fatto, un drastico calo tanto degli afflussi di “migranti” via mare quanto delle perdite di vite umane, a essi correlate.

È il caso di precisare che quanto appena detto sul possibile concorso delle Ong nel reato in discorso vale indipendentemente dalla dimostrata esistenza o meno di un previo accordo tra le stesse Ong e quelli che abbiamo definito come organizzatori dei “viaggi della speranza”. Per costante e indiscussa giurisprudenza, il concorso di più persone in un medesimo reato, quale previsto dall’articolo 110 del Codice penale, non richiede la prova che tutti i concorrenti abbiano preventivamente raggiunto tra loro la comune decisione di commettere il fatto, essendo invece sufficiente un qualsiasi contributo anche unilateralmente prestato che valga a rafforzare l’altrui proposito criminoso, senza alcuna necessità di “un previo accordo diretto alla causazione dell’evento, ben potendo il concorso esplicarsi in un intervento di carattere estemporaneo sopravvenuto a sostegno dell’azione altrui, ancora in corso quand’anche iniziata all’insaputa del correo” (così, fra le altre, Cassazione I, 28 gennaio – 3 giugno 1998 n. 6489).

Se così è, l’incriminazione delle Ong per concorso nel reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina avrebbe dovuto costituire quasi una regola, non invece, come è avvenuto, una eccezione (poi seguita, peraltro, per quanto è dato sapere, da un nulla di fatto); e ciò avrebbe dovuto comportare anche la sistematica applicazione, ai sensi dell’articolo 321, comma 2, del Codice di procedura penale, del sequestro preventivo dei mezzi navali adoperati per commettere il reato, in vista della confisca obbligatoria di tali mezzi, quale prevista, in caso di condanna o anche di applicazione della pena su richiesta dall’articolo 12 comma 4 ter del Decreto legislativo n. 286/1998; applicazione che normalmente viene disposta in tutti i procedimenti relativi agli altri, numerosi reati per i quali la legge prevede analoghi obblighi di confisca ,ma che, per misteriose ragioni, nei rari processi intentati a carico di Ong non risulta essere stata mai disposta.

In conclusione si può affermare non solo che la causa di giustificazione dei reati per i quali si è proceduto a carico di Carola Rackete è del tutto insussistente, ma anche che, in ossequio alla legge vigente e alla luce di elementari principi di diritto, in tutte le numerose volte in cui la condotta delle Ong aveva assunto le caratteristiche sopra descritte, si sarebbe dovuto dar luogo a una loro incriminazione per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, e alla conseguente applicazione del sequestro preventivo a fine di confisca dei mezzi navali da esse adoperati. Con il che si sarebbe pressoché azzerato tanto l’afflusso di “migranti” irregolari provenienti dal nord Africa – in grandissima parte, com’è noto, non aventi titolo alcuno alla protezione internazionale – quanto il numero di coloro che hanno trovato la morte nel tentativo di compiere la traversata del mare. Perché ciò non è avvenuto e non sembra nemmeno ragionevolmente prevedibile che possa avvenire?

(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino

Aggiornato il 05 gennaio 2022 alle ore 11:12