Crollo delle nascite: il ruolo del Welfare

L’Istat conferma i dati preoccupanti sull’andamento demografico dell’Italia. Il 2021, che si avvia alla conclusione, si chiude con un minimo storico di nascite: solo quattrocentomila, quasi quindicimila in meno rispetto all’anno precedente. Il dato evidenziato è ancora più allarmante se confrontato col numero di decessi, che hanno abbondantemente superato le nascite. Il quadro delineato dall’Istituto nazionale di statistica è stato definito di “potenziale crisi”, specialmente se si tengono in considerazione i probabili sviluppi di questo andamento negativo, se dovesse consolidarsi in futuro. Secondo quanto emerge dallo studio, infatti, la popolazione residente in Italia è in forte decrescita: nel 2030 potrebbero esserci un milione di italiani in meno rispetto a quelli attuali; nel 2050 il Paese avrà altri sei milioni di persone in meno; e nel 2070 saranno ben tredici milioni gli italiani in meno rispetto al numero presente. Allo stesso modo, il rapporto tra giovani e anziani è destinato a mutare in senso decisamente sfavorevole ai primi, divenendo di uno a tre entro il 2050 e di uno a sei entro il 2070. La popolazione in età lavorativa, nel giro dei prossimi trent’anni, scenderà al cinquanta percento rispetto all’attuale sessantatré. L’età media degli italiani, attualmente quarantasei anni, arriverà nel giro di pochi anni a cinquanta. Infine, il 2048 potrebbe essere l’anno in cui i decessi potrebbero doppiare le nascite: circa ottocentomila morti contro meno di quattrocentomila nati.

Si tratta di una prospettiva davvero inquietante, se pensiamo che fra qualche decennio l’Italia potrebbe essere un Paese popolato quasi esclusivamente da anziani e con pochissimi bambini e giovani al di sotto dei trentacinque anni di età, dei quali si stima che moltissimi non si riprodurranno o sceglieranno di farlo altrove, magari in un altro Paese capace di offrire loro migliori prospettive occupazionali. Ora, che il trend demografico fosse in declino era cosa già nota da molti anni, proprio come il progressivo e apparentemente inarrestabile invecchiamento della popolazione. Non servirebbero nemmeno i dati statistici per avvedersene: sarebbe sufficiente dare un’occhiata in giro, guardarsi attorno e mettere a confronto il numero di giovani con quelli degli anziani sui quali il nostro sguardo si è posato. Negli anni se ne sono fatte molte di proposte per invertire tale tendenza e ricominciare a crescere anche in termini demografici: ma nessuna di queste è riuscita a centrare il punto e a cogliere le ragioni profonde di questo trend negativo.

Bisogna sfatare un mito fin troppo diffuso: l’andamento demografico non ha nulla a che vedere col welfare, ma con fattori di natura economica e socio-culturale. Siamo abituati a pensare che gli italiani abbiano smesso di fare figli a causa della mancanza di politiche sociali volte a incentivare la natalità e, più in generale, la creazione di una famiglia; oppure in ragione dell’assenza di un sistema sociale capace di investire sulle nascite e di sollevare i neo-genitori da molte delle incombenze che l’avere dei figli implica. Di conseguenza, i rimedi che, nella maggior parte dei casi, vengono proposti per ovviare a questa spinosa situazione sono più o meno sempre gli stessi: aumento degli assegni famigliari; asili nido gratuiti; riforma dei congedi parentali; redditi di maternità e simili. Inutile dire che nessuno di questi è capace di “invertire la rotta”: nella migliore delle ipotesi può funzionare da rimedio palliativo, vale a dire che può momentaneamente migliorare il trend, ma non nel lungo periodo.

Si noti come l’idea in base alla quale lo Stato dovrebbe stimolare la natalità è simile alla concezione keynesiana (della quale è figlia) per cui l’intervento pubblico deve essere il motore della crescita e del buon andamento economico. Tuttavia, proprio come i funzionari chiusi in qualche palazzo romano non possiedono la conoscenza necessaria per tenere in considerazione tutti quei fattori capaci di apportare dei reali miglioramenti all’economia di un Paese (la maggior parte dei quali sono impossibili da prevedere), allo stesso modo, quegli stessi funzionari, sono sprovvisti anche delle conoscenze per considerare e prevedere i fattori che potrebbero ridare slancio all’andamento demografico. Bisogna lasciare che siano gli individui a provvedere a sé stessi e a pianificare la propria vita sulla base delle proprie conoscenze ed esperienze: tutto quello che può fare lo Stato è rendere tale compito il più semplice possibile, rimuovendo ogni tipo di ostacolo in tal senso. Cosa significa tutto questo? Che, proprio come lo Stato deve astenersi dalle manipolazioni economiche, dalle politiche “dopanti” rispetto al mercato, allo stesso modo non deve essere lo Stato a sussidiare direttamente le nascite, ma deve favorirle indirettamente, ponendo in essere tutte le condizioni perché gli italiani possano ricominciare ad avere più fiducia nel futuro e, quindi, a mettere su famiglia.

Il declino che stiamo vivendo, infatti, ha origine proprio in una cronica sfiducia nel futuro da parte della popolazione più giovane: sfiducia che, a sua volta, ha origine nel pessimo andamento economico di questo Paese. Tassazione insostenibile, clima inospitale per le imprese e conseguente stagnazione in termini occupazionali, incapacità di attrarre investimenti, difficoltà ad adeguarsi alle trasformazioni globali, mito del “posto pubblico”, un livello di assistenzialismo mostruoso e disincentivante rispetto al lavoro, interventi dello Stato in economia, un debito pubblico spaventoso: questi sono i fattori che hanno creato squilibri nella nostra economia, determinando così anche la stagnazione demografica. Di conseguenza, il primo intervento in favore della natalità dovrebbe essere quello di liberare le energie economiche di questo Paese dall’oppressione fiscale, dall’ipertrofia normativa e dal disordine nei conti pubblici.

La natalità, come dicevo prima, è strettamente correlata alla fiducia dei giovani nel futuro, che a sua volta è legata alle prospettive occupazionali. Si mette al mondo un figlio quando si ha la certezza di potergli offrire una vita dignitosa, ossia quando si possiede quella sicurezza lavorativa (che non è necessariamente sinonimo di “posto fisso”, ma di un mondo del lavoro sufficientemente dinamico da offrire delle concrete possibilità di rioccuparsi nel breve periodo) che solo un’economia libera e fondata sul principio del massimo sfruttamento del potenziale di ciascun individuo può offrire. Da questo punto di vista, è opportuno sottolineare come il Welfare, favorendo la crisi economica – attraverso l’appesantimento dei conti pubblici e della tassazione, la regolamentazione delle dinamiche di mercato in nome del “bene comune” e finendo per costituire una vera e propria “alternativa” al lavoro – ha posto le basi anche per quella demografica.

In secondo luogo, è evidente che all’origine della crisi delle nascite ci sono anche delle ragioni di carattere socio-culturale. Gli italiani hanno smesso di fare figli semplicemente perché fare figli non è più una priorità, perché ha prevalso la cultura del “breve periodo”: non si pensa al domani, non si fanno piani per il futuro e ci si accontenta di “vivere l’attimo”, qualsiasi cosa questo significhi e indipendentemente dalle conseguenze che questo potrebbe avere nel tempo, delle quali ci si occuperà al momento opportuno. È abbastanza chiaro che avere dei figli e mettere su famiglia rientra tra i progetti di lungo periodo, ed è altrettanto chiaro che la cultura del “breve periodo” ha creato un clima decisamente inospitale per questo genere di progettualità.

Ma c’è di più: il tanto sbandierato sistema di Welfare ha eliminato il bisogno di socialità degli uomini, che è ciò che ci spinge a ricercare i nostri simili e a costituire con essi relazioni di lungo periodo, come la famiglia. Consapevoli di non bastare a noi stessi e di aver bisogno degli altri, siamo inconsciamente portati a intessere rapporti significativi con le altre persone: è precisamente questo quello che Aristotele intendeva dire quando definiva l’uomo “animale politico”. Il Welfare ha reso superflui questi rapporti nel momento in cui ha “liberato” l’uomo dalla necessità di relazionarsi coi suoi simili per soddisfare le proprie necessità e per vivere meglio. Ciò ha avuto anche un effetto profondamente deresponsabilizzante sugli individui, che non sentendo più il dovere di provvedere a sé stessi e non vedendo più la necessità di godere del rispetto e della stima dei consociati, hanno iniziato a vivere secondo stili di vita “alternativi” e squilibrati, contrari cioè a ogni principio di decenza e di sobrietà.

Dunque, il declino demografico non dipende dalla mancanza di Welfare o di adeguate politiche sociali in favore della famiglia, ma proprio dalla mentalità “welfarista” che, dopo aver provocato distorsioni nel naturale ordine economico, le ha provocate anche in quello sociale. Anche in questo caso, come per l’economia, forse bisognerebbe riconsiderare il ruolo dello Stato, che dovrebbe farsi da parte mettendo gli individui nelle condizioni di riscoprire il valore del sacrificio, dell’auto-disciplina, della socialità e della responsabilità individuale; di ricominciare a vivere preoccupandosi del futuro e non solo del presente, favorendo così il ristabilimento di un clima culturale favorevole alla creazione di relazioni stabili e di lungo periodo: famiglia in primis. Anche volendo ammettere la tesi contraria, cioè che la mancanza di Welfare e di politiche famigliari abbia determinato il crollo delle nascite e l’invecchiamento della popolazione, bisognerebbe comunque pensare che, forse, si è speso troppo e male a causa della mentalità statalista (per la quale lo Stato deve provvedere a ogni necessità e non deve mai far mancare “pane e divertimento” ai cittadini) per poter spendere saggiamente, investendo cioè sulle cose veramente rilevanti per il futuro del Paese, quindi anche sulla famiglia e sulla natalità.

Aggiornato il 16 dicembre 2021 alle ore 11:13