Il 25 novembre ricorre la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, un’occasione per riflettere sulla gravità di un fenomeno ancora oggi diffuso in tutto il mondo e che va contrastato a partire dalla formazione dei più giovani.
L’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 17 dicembre 1999, con la risoluzione numero 54/134, ha istituito la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Il 25 novembre non è stato scelto a caso. In questa data si ricorda infatti l’assassinio delle tre sorelle Mirabal, uccise nel 1960 in quanto contrarie al regime del dittatore dominicano Rafael Leónidas Trujillo Molina: è una ricorrenza che invita a riflettere su cosa sia la violenza e sulle diverse forme che essa assume. Secondo i dati Onu si stima che una donna su tre, nel mondo, abbia subito violenza fisica, sessuale o psichica: donne picchiate, costrette ad avere rapporti sessuali non voluti; donne costrette a sposarsi – talvolta ancora bambine – o a indossare un certo tipo di abbigliamento; donne minacciate, ricattate, schiavizzate; donne ridotte al silenzio dalla paura e dalla vergogna. Donne che troppo spesso non denunciano per timore di non essere credute. Durante il lockdown sono aumentate le richieste di aiuto ai centri antiviolenza, e però non sempre le vittime hanno avuto la forza di denunciare e molte di loro non hanno potuto farlo perché sono state uccise.
Anche in Italia ‒ a due anni dall’entrata in vigore del “codice rosso”, la procedura d’urgenza introdotta dalla Legge numero 69/2019 per contrastare in maniera più rapida ed efficace i reati legati alla violenza di genere e a quella familiare ‒ il quadro continua a restare preoccupante.
In base ai dati Istat, le donne separate o divorziate hanno subito violenze fisiche, psichiche o sessuali in misura maggiore rispetto alle altre. Per queste donne, in diversi casi, si aggiunge anche un’altra forma di violenza: quella di essere giudicate delle cattive madri perché chiedono un affidamento esclusivo o delle limitazioni nelle visite padre/figlio, in ragione delle violenze già manifestate dall’altro genitore. Si tratta della vittimizzazione secondaria, un tema complesso che conferma la necessità di una specifica preparazione da parte di giudici, consulenti tecnici e avvocati in materia di diritto di famiglia, oggetto di attenzione anche da parte della Commissione di inchiesta sul femminicidio del Senato.
La violenza, come emerge dai dati in materia, può colpire qualunque donna, in famiglia o sul luogo di lavoro, a scuola come all’università o nei luoghi pubblici. Sta diventando sempre più frequente anche la violenza on-line: insulti, minacce, commenti sessisti o denigratori rivolti alle donne in quanto donne. Una delle forme più gravi di violenza on line è costituita dal revenge porn, ossia la diffusione di foto o video sessualmente espliciti senza il consenso dell’interessato, in danno soprattutto delle donne. Da un paio di anni, con la legge numero 69/2019 questa pratica – che si stava diffondendo sui social ‒ è sanzionata ai sensi dell’articolo 612 ter del Codice penale con la reclusione da uno a sei anni, o con una sanzione più grave “se i fatti sono commessi in danno di persona in condizione di inferiorità fisica o psichica o in danno di una donna in stato di gravidanza”. Contro questa forma di violenza il Garante della privacy ha messo a disposizione sul proprio sito un canale di emergenza per consentire alle vittime di bloccare la diffusione delle immagini. Non va dimenticato che le foto o i video postati in rete, una volta diffusi, possono recare gravi danni alla vittima e non sempre si riesce, nonostante l’individuazione del colpevole, a limitare i danni della diffusione.
Un fattore da non sottovalutare quando si affronta il tema della violenza sulle donne è l’incidenza negativa del consumo di alcol e/o di sostanze stupefacenti, soprattutto fra i più giovani. Molti degli stupri di ragazze da parte di coetanei sono avvenuti sotto l’effetto di droghe o di alcol, come riportano tristemente i dati raccolti dalle autorità. I numeri e i dati che emergono dalle statistiche sono agghiaccianti ma lo è ancora di più il sapere che dietro a quei numeri e quei dati ci sono delle persone segnate da una sofferenza profonda. Le ferite prodotte dalla violenza – in qualsiasi forma questa si sia manifestata – continuano ad essere presenti anche a distanza di tempo. Le leggi a tutela delle donne ci sono, ma non bastano e non saranno mai sufficienti fino a quando continueranno a esistere certi stereotipi e certe convinzioni. Da una recente ricerca promossa da Rete Antiviolenza del Comune di Milano è risultato che circa 3 persone su 10 ritengono che non sia violenza dare uno schiaffo alla propria partner che ha flirtato con un altro uomo: ne sono convinti circa il 20 per cento delle donne e il 40 per cento degli uomini. Inoltre, 4 uomini su 10 degli intervistati ritiene che non sia violenza forzare la partner a un rapporto sessuale se lei non ne acconsente. Lascia ancora più sorpresi il fatto che la stessa risposta sia stata data da 3 donne su 10. Questi dati confermano che la questione va affrontato prima di tutto sul piano culturale, in particolare in ambito scolastico ed educativo, come suggerito anche dall’articolo 14 della Convenzione di Istanbul.
Includere nei programmi scolastici, come indicato dalla Convenzione, “materiali didattici su temi quali la parità tra i sessi, i ruoli di genere non stereotipati, il reciproco rispetto, la soluzione non violenta dei conflitti nei rapporti interpersonali, la violenza contro le donne basata sul genere e il diritto all’integrità personale, appropriati al livello cognitivo degli allievi” può contribuire ad abbattere certe idee diffuse, spesso alimentate da programmi televisivi o social network seguiti dai più giovani. La scuola deve far comprendere a bambini e ragazzi la negatività di certi comportamenti, affinché gli stessi non vengano presi come modelli.
Sul tema, in occasione della Giornata Internazionale della donna dell’8 marzo, il Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza, auspicando l’introduzione nei programmi scolastici dei temi relativi alla parità di genere, ha ricordato come “il rispetto nei confronti delle donne, dei loro diritti e delle pari opportunità si impara da piccoli e va coltivato nel tempo”. La scuola, inoltre, ha osservato ancora il Garante, ha un ruolo fondamentale nell’individuazione dei segnali di maltrattamento ed abusi in famiglia.
Strettamente collegato al tema della violenza sulle donne è quello della violenza assistita. I figli che assistono ad episodi di violenza in famiglia possono avere delle gravissime conseguenze: stati di ansia, sensi di colpa, perdita della fiducia nelle relazioni interpersonali, fino allo sviluppo di comportamenti aggressivi. Secondo gli studi Istat in materia, in questi casi i figli maschi imparano ad agire con violenza avendo maggiori probabilità di essere in futuro partner aggressivi, mentre le figlie tendono, nell’età adulta, a tollerare la violenza subita.
Un altro importante tema su cui riflettere è quello relativo al rapporto fra violenza e appartenenza religiosa, soprattutto con riferimento alle donne immigrate. La mente va subito a quei casi di cronaca, ad esempio, in cui le violenze perpetrate a mogli o fidanzate – maltrattamenti fisici, limitazioni nell’abbigliamento, divieto di andare a scuola, imposizione di un matrimonio non voluto ‒ sono state giustificate dagli autori in quanto ritenute conformi alla religione o alla cultura del proprio Paese di origine. Ci sono stati uffici giudiziari italiani, come accaduto di recente a Perugia, che in casi come quelli citati hanno valutato la cultura o la religione quali scriminanti: maltrattamenti giudicati meno gravi perché giustificati dall’appartenenza religiosa degli indagati. Sul punto la Cassazione ha invece chiarito che una cultura non può mai giustificare delle violenze. La violenza sulle donne, in qualsiasi forma, integra una violazione dei diritti umani e non può in alcun modo essere tollerata. Nel 2019, proprio per superare certe convinzioni, è stato avviato il progetto “Not in my name. Ebrei, cattolici e musulmani in campo contro la violenza sulle donne”, frutto della collaborazione tra l’Unione delle comunità ebraiche italiane, la comunità religiosa islamica italiana e l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, in collaborazione con il Dipartimento per le Pari Opportunità della presidenza del Consiglio dei ministri.
Non va infine dimenticato quello che avviene al di fuori di confini nazionali. La fondazione di diritto pontificio Aiuto alla Chiesa che Soffre (Acs) ha appena pubblicato un Rapporto, intitolato Ascolta le sue grida. Rapimenti, conversioni forzate e violenze sessuali ai danni di donne e bambine cristiane. Nella prefazione, a firma della giovane cristiana pachistana Maira Shahbaz, si legge: “Sono stata torturata e violentata. I miei aguzzini hanno filmato le sevizie infertemi e mi hanno ricattata minacciando di diffondere il video. Sono quindi stata costretta a firmare un documento in cui dichiaravo di essermi convertita e di aver sposato il mio rapitore. Se avessi rifiutato di farlo, avrebbero ucciso i miei familiari”. Il Rapporto di Acs si basa su fonti selezionate ed è scaturito dalle numerose segnalazioni giunte alla Fondazione dai rappresentanti delle Chiese locali e da altri riferimenti di fiducia: centinaia di denunce riguardanti bambine, ragazze e giovani donne appartenenti a famiglie cristiane costrette alla schiavitù sessuale e alla conversione religiosa, spesso dietro minaccia di morte.
Il Rapporto esamina sei nazioni – Egitto, Iraq, Mozambico, Nigeria, Pakistan e Siria – e da esso emerge che:
- tra tutte le appartenenti alle minoranze religiose, le ragazze e le giovani donne cristiane sono tra le più esposte agli attacchi;
- pressione sociale, paura di gettare un’onta sulla propria famiglia, minaccia di ritorsioni da parte di rapitori e complici, resistenza da parte di tribunali e forze di polizia a seguire i casi sono fattori che spiegano la difficoltà di indagare il fenomeno;
- la pandemia Covid-19 ha fornito un terreno fertile per atti di violenza sessuale;
- la maggiore incidenza di persecuzioni sessuali e religiose sono ai danni delle donne nelle situazioni di conflitto; ciò si è reso evidente durante la presa di potere da parte dell’Isis (Daesh) in alcune aree della Siria e dell’Iraq; se ne ha notizia anche altrove, come ad esempio in Mozambico;
- il movente dei perpetratori in molti casi è limitare la crescita, e a volte la sopravvivenza stessa, del gruppo religioso delle vittime, con casi sistematici di rapimenti, violenze sessuali, matrimoni e conversioni forzate di donne cristiane, come ad esempio in Nigeria.
(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino
Aggiornato il 25 novembre 2021 alle ore 13:55