La responsabilità medica è tema articolato e complesso, ancor di più in tempo di pandemia. Essa ha posto e porrà i giuristi di fronte a nuovi interrogativi: tra questi uno di quelli più delicati è rappresentato dai potenziali profili di responsabilità civile a carico delle strutture sanitarie per le infezioni da Coronavirus contratte nelle strutture stesse.
Il fenomeno delle infezioni contratte nelle strutture sanitarie e socio-sanitarie, già prima dell’imprevedibile eccezionalità del Covid-19, costituiva uno dei principali problemi di “salute pubblica”, oltre che fonte di un “fervente” contenzioso giudiziario. In Italia sono state adottate già da tempo – sia a livello nazionale che a livello regionale – misure di buone pratiche cliniche in tema di prevenzione delle Ica (Infezioni correlate all’assistenza). Si ricordano, in particolare, due circolari del Ministero della Sanità:
- la numero 52/1985 Lotta alle infezioni ospedaliere, nella quale viene raccomandato l’avvio di un programma di controllo delle infezioni in ciascun presidio ospedaliero, con la costituzione di un Comitato multidisciplinare, di un gruppo operativo e la dotazione di personale infermieristico dedicato, affidando alle Regioni il relativo coordinamento;
- la numero 8/1988 Lotta alle infezioni ospedaliere: la sorveglianza, nonché il decreto del ministro della Sanità 13 settembre 1988 istitutivo del Comitato Ospedaliero per le infezioni nosocomiali.
La legge numero 24 del 28 febbraio 2017, nota come legge Gelli-Bianco dal nome dei relatori alla Camera e al Senato, ma ancora prima il decreto-legge numero 158/2012, convertito in legge numero 189/2012, noto come legge Balduzzi, si pongono come obiettivo migliorare la qualità delle prestazioni, da un lato, e aumentare la serenità dei professionisti, dall’altro, con ricadute sulla spesa sanitaria. L’effetto auspicato dal legislatore era di pacificare il rapporto fra sanitari e pazienti.
Già i primi commentatori hanno espresso perplessità sull’idoneità della riforma a realizzare quell’obiettivo. È stato in proposito affermato che “sicuramente si tratta di una riforma innovativa. Ma il cambiamento non è un valore in sé; lo diventa se procura beneficio ai suoi destinatari. Il tempo ci dirà se, in seguito all’entrata in vigore di questa riforma, migliorerà la qualità delle prestazioni a aumenterà la serenità dei professionisti nel fornirle. In tal caso, quel 28 febbraio sarà una giornata storica; diversamente, sarà solo il martedì grasso del 2017”.
La responsabilità civile sanitaria di cui alla legge numero 24/2017 all’articolo 7 prevede un sistema di responsabilità cosiddetto a doppio binario: l’esercente la professione sanitaria risponde per i danni prodotti a titolo extracontrattuale ai sensi dell’articolo 2043 del Codice civile, salvo che abbia agito nell’adempimento di un’obbligazione contrattuale assunta con il paziente, mentre la struttura sanitaria e socio-sanitaria, pubblica o privata, sul presupposto di un rapporto contrattuale atipico con l’assistito, cosiddetta di assistenza sanitaria o di spedalità, risponde dell’inadempimento dell’operatore di cui si avvale ai sensi dell’articolo 1228 del Codice civile.
Colpa, danno e nesso causale rimangono i presupposti della responsabilità professionale medica ai tempi del Covid. Ciò che cambia è l’àmbito nel quale detti requisiti debbono essere collocati. L’emergenza epidemiologica presenta, per definizione, connotati e peculiarità inediti:
– la novità del virus e della patologia che esso determina;
– l’assenza di protocolli o di buone pratiche clinico-assistenziali, e men che meno di linee guida, per il relativo trattamento;
– la mole di pazienti da gestire nello stesso contesto spaziale e/o temporale;
– la limitata disponibilità delle risorse per affrontare l’emergenza, dai posti letto in terapia intensiva ai macchinari di ventilazione, agli stessi dispositivi di protezione individuale;
– la necessità di una riallocazione, ancorché temporanea, del personale sanitario, che si è trovato spesso a operare in area estranea alla propria specializzazione.
Sono tutti elementi, questi, che non solo consentono, ma impongono all’interprete di valutare con criteri specifici e puntuali le condotte sanitarie avvenute in questo contesto. Il principio di ragionevolezza – che affonda le radici nell’articolo 3 della Costituzione – comporta quale corollario il dovere di trattare in modo uguale situazioni uguali (rectius, simili tra loro), e di trattare in modo diverso situazioni diverse (id est, tra loro dissimili). Dunque, poiché la fase di emergenza non è uguale alla situazione ordinaria, va da sé che la responsabilità medica e sanitaria ai tempi del Covid non può essere giudicata sulla base delle medesime coordinate ermeneutiche.
Va poi compreso se, in un contesto caratterizzato dall’epidemia, la responsabilità professionale si applica nei confronti dell’esercente la professione sanitaria, di cui all’articolo 7 si è evidenziata l’esigenza di salvaguardare gli operatori sanitari da azioni legali, in alcuni casi connotate da uno scopo speculativo, più che di giustizia. Gli operatori sanitari hanno svolto e svolgono le loro attività in un contesto “stressato”, e l’alta facilità di trasmissione del virus li ha esposti a una elevata probabilità di contagio.
Come evitare che la lotta al Covid si tramuti in un inopportuno scontro tra esercenti la professione sanitaria e pazienti? Il primo elemento su cui ragionare è il concetto di emergenza, che è dato da un’attenta analisi della realtà che “può consentire di cogliere le contingenze nelle quali vi è una particolare difficoltà della diagnosi, sovente accresciuta dall’urgenza; e di distinguere tale situazione da quelle in cui, invece, il medico è malaccorto, non si adopera per fronteggiare adeguatamente l’urgenza o tiene comportamenti semplicemente omissivi, tanto più quando la sua specializzazione gli impone di agire tempestivamente proprio in emergenza (…). In breve, quindi, la colpa del terapeuta ed in genere dell’esercente una professione di elevata qualificazione va parametrata alla difficoltà tecnico-scientifica dell’intervento richiestogli ed al contesto in cui esso si è svolto”.
È possibile l’applicazione dell’articolo 2236 del Codice civile, per il quale se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, l’esercente la professione sanitaria (in questo caso prestatore d’opera) non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave. Tale disposizione normativa inserisce all’interno dell’ordinamento giuridico “una regola logica ed esperienziale che sta nell’ordine stesso delle cose”, e che richiede di ponderare tutte le difficoltà con cui il professionista ha dovuto confrontarsi.
Qualora il Legislatore volesse predisporre una norma ad hoc, per tutelare in modo specifico gli operatori sanitari, dovrebbe seguire la linea tracciata dall’articolo 2236 del Codice civile, circoscrivendo la responsabilità dell’esercente la professione sanitaria alle situazioni di emergenza in cui l’operatore avesse agito in violazione dei protocolli, delle linee guida e delle buone prassi mediche. È importante individuare coloro che potranno giovare di questa limitazione normativa: non vi è discussione sul fatto che tutti gli esercenti la professione sanitaria siano compresi tra i destinatari di una norma siffatta.
Più complessa è la posizione delle strutture sanitarie, sulle quali ricade l’obbligo della gestione amministrativa e organizzativa dell’emergenza sanitaria: saranno esentate dalla responsabilità solo qualora dimostrino che abbiano posto in essere tutte le azioni necessarie al fine di evitare il contagio. Considerando che la natura dell’infezione da Covid è di matrice prevalentemente non ospedaliera, ipotizzando che la struttura sanitaria svolga tutte le necessarie sanificazioni e predisponga protocolli interni specifici di isolamento dei contagiati e di prevenzione dell’infezione (ad esempio percorsi alternativi per infettati e altri pazienti), nulla potrebbe fare rispetto ad atteggiamenti irresponsabili dei singoli soggetti.
Per definire il grado di responsabilità da contagio, nella circostanza in cui il nosocomio non sia stato tempestivo nell’adottare misure organizzative specifiche, si deve tener conto delle difficoltà derivanti dall’emergenza e dello stato strutturale del nosocomio stesso. Ferme restando le regole fissate dalla giurisprudenza più recente sulla ripartizione dell’onere della prova, e la difficile riconduzione della responsabilità nel frangente emergenziale della pandemia tra prestazione “routinaria” e prestazione “non routinaria”, lo scenario si è ulteriormente articolato in seguito al decreto legge numero 44/2021, che all’articolo 3 ha escluso la responsabilità penale di cui agli articoli 589 e 590 del Codice penale a seguito della somministrazione dei vaccini anti-Covid, sebbene nulla abbia stabilito non soltanto in ordine alla responsabilità civile, ma neanche in riferimento agli eventuali eventi avversi prodottisi anteriormente all’emanazione del decreto.
Il tutto andrebbe e riconnesso alla disciplina sul consenso informato sistematizzata dalla legge numero 219/2017 che per un verso enfatizza la responsabilità del medico nell’accertamento della volontà del paziente, e per altro verso solleva il medico da eventuali responsabilità proprio in virtù della volontà espressa dal paziente. Il tema della responsabilità del medico, a pandemia ancora in corso, indica l’effervescenza vitalità del diritto perfino in condizione di crisi.
(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino
Aggiornato il 07 ottobre 2021 alle ore 11:57