Piano tagli redattori stravolge Repubblica

Svuotamento dei cassetti, ripulitura dei computer, di tutto il materiale accumulato negli anni, saluti, addii, tanti ricordi, dietro le spalle battaglie giornalistiche all’insegna della sinistra laica e riformista, sotto la guida di “Barbapapà” Eugenio Scalfari direttore dell’Espresso in quel 14 gennaio 1976, quando nacque il giornale che gli editori Carlo Caracciolo e Carlo De Bendetti mettevano in campo per gareggiare con il Corriere della sera. Dal primo novembre entra nella fase di realizzazione “il piano di riorganizzazione” del giornale che avrà una durata di 12 mesi e determinerà (come voluto dal proprietario John Elkann, azionista di maggioranza del gruppo Gedi) in termini di burocratesi sindacale “l’insorgenza di un esubero di giornalisti”. Quanti? Il Comitato di redazione (due volte dimissionario) ha accettato il numero di 54 unità che rappresenta il numero dei giornalisti che potrebbero maturare i requisiti per accedere al prepensionamento ex articolo 37 della legge sull’editoria n.416 del 1981, firmata dal presidente della Repubblica di allora Sandro Pertini. Ora però vengono stravolte molte regole e le relazioni industriali.

Le uscite cambieranno il volto del quotidiano diretto dal 23 aprile 2020 dal romano Maurizio Molinari, succeduto a Carlo Verdelli e prima di lui Mario Calabresi e per quasi un doppio ventennio da Ezio Mauro e Eugenio Scalfari. La redazione, dopo un estenuante braccio di ferro del Cdr con l’azienda, ha approvato l’accordo con 225 voti favorevoli, 31 contrari e 9 astenuti. Quando giovedì 7 ottobre il Consiglio nazionale della Fnsi (presieduto dal presidente Giuseppe Giulietti e dal segretario Raffaele Lorusso) si riunirà, in seduta straordinaria, in Piazza Montecitorio si troverà di fronte un settore dell’informazione in profonda sofferenza, e con una commissione dagli esiti incerti che dovrebbe decidere le sorti dell’Istituto di previdenza, gravato da 242 milioni di disavanzo. L’ipotesi di salvare i conti dell’Inpgi con l’inserimento dei “comunicatori” o dei grafici non sembra praticabile. C’è inoltre uno strano riserbo sui lavori di questa commissione. La mazzata di altri 54 prepensionamenti di Repubblica rischia di far saltare il termine del 31 dicembre per il commissario dell’ente di previdenza, aumentando il timore che dietro l’angolo ci sia l’eventualità di trasferire tutto all’Inps.

Per la prima volta, inoltre, nell’accordo di Repubblica è prevista la possibilità di assumere 4 non giornalisti tra tecnici digitali o esperti di sistemi editoriali. La scelta viene riservata al direttore, il quale potrà anche scegliere tra i precari i 27 giornalisti destinati a essere assunti al posto di due uscite. Uscite dolorose perché tra i 62 anni ci sono redattori e inviati che hanno fatto la storia del giornalismo italiano. In pratica se ne va quasi tutta l’ossatura del giornale e che i lettori aveva imperato ad apprezzare nel corso di 45 anni vissuti prima a Piazza Indipendenza e poi all’Ostiense. Dal giornalismo delle linotype e dei servizi strillati al telefono alle macchinette e ai computer. La rivoluzione digitale non vedrà più firme storiche, ma già con i primi cambiamenti se ne erano andati Gad Lerner, Enrico Deaglio, Attilio Bolzoni, Pino Corrias, Bernardo Valli, Irene Bignardi, Roberto Saviano a cui si aggiungono ora Vincenzo Nigro, Federico Rampini, Pietro Del Re, Fabrizio Bocca. Si chiude un’epoca. Dopo la Stampa ecco lo stato di crisi di Repubblica, dello stesso gruppo editoriale Gedi.

Aggiornato il 04 ottobre 2021 alle ore 11:32