“Chiesero a Confucio, nell’ipotesi che il principe Wei gli affidasse il governo: Che farai per prima cosa? Rispose Confucio: È assolutamente necessario ridare ai nomi il loro vero significato”. La parole del saggio sintetizzano lo iato – ancora attuale – tra l’essere e il suo nome. Non è una apparentemente astratta disputa filosofico-terminologica, poiché si manifesta, secondo le contemporanee forme giuridiche, in un recente caso giudiziario deciso dalla Court of Appeals dell’Ohio, Meriwether v. Shawnee State University. La controversia ha interessato da un lato il professore Nicholas Meriwether, docente di filosofia politica, e dall’altro l’ateneo Shawnee State University, e ha avuto per oggetto la legittimità della sospensione – anche retributiva – del docente dall’insegnamento decisa, poiché egli non avrebbe utilizzato il corretto pronome nei confronti di uno studente transgender: in virtù dei propri convincimenti religiosi, si sarebbe rifiutato di utilizzare il pronome femminile per un ragazzo, che peraltro non aveva subito alcun intervento medico dei propri caratteri sessuali.
Il docente ha fatto ricorso contro il provvedimento sanzionatorio dell’ateneo, che riteneva discriminatorio il rifiuto opposto dall’insegnante all’utilizzo del pronome femminile. Giunti alla Court of Appeal, dopo un triennio di peripezie giudiziarie, spese legali, assenza di retribuzione, e inevitabile discredito mediatico per il professore “discriminatore”, il collegio composto dai giudici Mckeague, Thapar, e Larsen il 26 marzo 2021 ha posto fine al contenzioso, ribaltando le decisioni precedenti e ha aderito alle ragioni del docente, poiché coerenti con la Costituzione Usa. Con la sentenza i tre giudici hanno ribadito la supremazia della libertà di coscienza del docente, che l’ordinamento statunitense riconosce e tutela. Le parti alla fine del giudizio hanno concordato l’uso del pronome neutro per non sbilanciarsi in un senso o nell’altro, e l’ateneo ha reintegrato l’insegnante nel posto di lavoro. C’è un passaggio giuridicamente pregnante della sentenza, che merita di essere riportato nella sua interezza in quanto cristallizza in modo compiuto le cosiddette “clausole di salvaguardia” della libertà di coscienza e di pensiero, in modo talmente inappuntabile che andrebbero prese a modello, per esempio per emendare o cassare il contorto articolo 4 del Ddl Zan.
La Corte infatti ha stabilito che “se i professori non avessero adeguate protezioni per la libertà di parola durante l’insegnamento, un’università avrebbe un potere allarmante tanto da poter imporre il conformismo ideologico. Un rettore di un’università potrebbe richiedere a un pacifista di dichiarare che la guerra è giusta, a un’icona dei diritti civili di condannare i Freedom Riders, a un credente di negare l’esistenza di Dio o obbligare un emigrato sovietico a rivolgersi ai suoi studenti come “compagni”. Tutto ciò non può essere. Se c’è una stella fissa nella nostra costellazione costituzionale, è che nessun può prescrivere alcuna ortodossia ufficiale”.
(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino
Aggiornato il 08 settembre 2021 alle ore 10:44