È il diciotto maggio del 2016 e Giuseppe Antoci, presidente del Parco dei Nebrodi, è in auto con una parte degli uomini della sua scorta, gli altri sono nella seconda vettura che segue di lì a poco. È notte fonda, la statale che attraversa il Parco è buia e molto isolata. A un certo punto il veicolo con Antoci a bordo è costretto a rallentare, perché l’autista vede delle grosse pietre posizionate a intralciare il passaggio. È un attimo: appena la macchina si ferma iniziano i colpi di fucile indirizzati ad Antoci, esplosi con l’intento di uccidere quel presidente scomodo che si era messo di traverso contro le cosche, che con il suo operato aveva fermato la mercificazione dei terreni del Parco, a cui la mafia era da sempre interessata. L’attentato fallisce, anche per la prontezza degli uomini di scorta nella seconda auto, che ebbero la freddezza di scendere e rispondere al fuoco (qui il video de Le Iene).

Giuseppe Antoci, ex presidente del Parco dei Nebrodi, grazie innanzitutto per aver deciso di rilasciare questa intervista. Per chi non conosce la storia del suo attentato oggi, a distanza di cinque anni, come la racconta?

È una storia di normalità, di esercizio del dovere. Non è una storia di eroismo. Sono stato sempre convinto che il dovere di cittadinanza sia la strada maestra per creare un Paese migliore. Prendo a prestito le parole del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, quando dice che se da un lato c’è chi lotta la mafia e dall’altro lato la mafia, rimanere in mezzo, senza schierarsi, non vuol dire non prendere posizione, perché quel silenzio aiuta la mafia. Ecco, io ho tentato di rimettere normalità in un settore, quello dei contributi europei per l’agricoltura, che per anni consentiva alle mafie di lucrare milioni di euro ed è per questo che quella notte hanno tentato di fermarmi. Quando alle mafie tocchi i soldi loro reagiscono. Grazie a Dio e ai valorosi uomini della mia scorta sono ancora qui e continuo a fare la mia parte.

Della sua storia ne ha parlato Nuccio Anselmo nel libro “La mafia dei pascoli”. Ci fa capire di che fenomeno stiamo parlando e quanti milioni di euro erano in ballo?

Si tratta di milioni di euro che indisturbati venivano percepiti dai mafiosi a discapito di agricoltori e allevatori per bene. Fondi europei per l’agricoltura che dovevano servire ad aiutare un settore importantissimo del nostro Paese e invece, con una semplice autocertificazione, intascavano somme ingenti senza che nessuno, per anni, ha cercato di impedirglielo. Solo nella programmazione precedente e solo in Sicilia, per esempio, parliamo di un bacino di circa cinque miliardi di euro. Molti di questi fondi venivano intercettati da mafiosi.

Nel 2017 la Camera dei deputati ha trasformato in legge il “protocollo Antoci”, che secondo qualcuno fu il motivo perché la mafia voleva ucciderla. Ci delinea i caratteri di questa importante legge antimafia che porta il suo cognome?

Il Protocollo di Legalità si inserisce nella lotta alle cosiddette agromafie o mafie dei pascoli, fenomeno di infiltrazione mafiosa nel settore dell’agricoltura. La finalità di tale protocollo è mettere al centro delle procedure di affidamento dei fondi europei i principi di trasparenza, correttezza, efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa e di tutelare il principio di legalità, concorrenza e libertà di esercizio d’impresa in uno dei più importanti settori strategici per l’economia, quello agro-silvo-pastorale. Il punto di svolta introdotto dal Protocollo e dunque dal suo recepimento nel Nuovo codice Antimafia, approvato in Parlamento il 27 settembre 2017, è rappresentato dall’obbligo di fornire la documentazione e l’informazione antimafia anche per i bandi inferiori a 150mila euro per i quali, precedentemente, era prevista un’autocertificazione. Tale introduzione ha sferrato un duro colpo all’economia mafiosa dei pascoli che per anni ha agito indisturbata, creando un giro vorticoso di svariati miliardi di euro, attraverso affitti pluriennali di terreni che consentivano così di accedere ai fondi europei. Per far ciò, alcune organizzazioni mafiose arrivavano ad avere in affitto migliaia di ettari mediante prestanome e suddividendole in più aziende al fine di non superare la soglia dei 150mila euro. Per contrastare tali attività, il protocollo prevede obblighi in capo alle parti stipulanti. L’articolo 2 del documento impone, per esempio, la vigilanza sul rispetto pieno e incondizionato della normativa di prevenzione dei tentativi di infiltrazioni mafiose nelle procedure di concessione dei beni a privati. A tal fine i concessionari devono formalmente assumere, attraverso la sottoscrizione del protocollo o adempiere, qualora fosse inserito nei bandi di gara, l’obbligo di non concedere a terzi la titolarità o l’utilizzo dei beni e l’obbligo di denunciare immediatamente alle autorità competenti “le richieste di denaro o altre utilità ovvero offerta di protezione o estorsione di qualsiasi natura che venga avanzata nei propri confronti o di familiari”. Il mancato rispetto di tali obblighi è sanzionato con la mancata concessione del provvedimento o la revoca dello stesso. La rilevanza del Protocollo è testimoniata dall’estensione a tutto il territorio siciliano, prima e a tutto il territorio nazionale, dopo. La Commissione europea con una apposita nota a firma del Commissario Phil Hogan ha invitato gli Stati membri a seguire l’esempio dell’Italia, considerando il Protocollo Antoci uno strumento eloquente di tale impegno.

Nel 2019 è stato eletto presidente onorario della Fondazione “Antonino Caponnetto”. Che ricordo ha di lui e come la Fondazione ne tiene viva la memoria?

È una continua fonte di ispirazione. Per me è un grande onore affiancare la moglie del magistrato Antonino Caponnetto alla presidenza onoraria della Fondazione da lui voluta. Il suo testimone è quello di portare la Legalità in mezzo ai giovani, nelle scuole, in tutti i luoghi dove i giovani possano comprendere il valore della scelta e, appunto, optare da subito da che parte stare. Io ne incontro migliaia, per scuole e Università, e posso dire che loro non sono il futuro, come spesso gli viene detto, ma sono il presente di questo Paese e noi abbiamo il dovere di coinvolgerli sempre più.

Qualche giorno fa a Marcellinara, in provincia di Catanzaro, hanno voluto consegnarle la cittadinanza onoraria con la presenza del prefetto, la dottoressa Maria Teresa Cucinotta. Cosa le lascia questa iniziativa?

Mi lascia onore ma anche responsabilità. Diventare cittadino onorario di una Comunità deve essere un inizio non un arrivo e, dunque, comincia per me un percorso che mi vedrà impegnato nello stare il più possibile vicino a Marcellinara che ha scelto, in maniera chiara, da che parte stare. La presenza del prefetto Cucinotta, impegnata dallo Stato in più luoghi difficili del nostro Paese, del questore e del comandante dei Carabinieri ne ha suggellato il valore istituzionale.

Aggiornato il 24 agosto 2021 alle ore 15:22