Esiste il “diritto” a ottenere un “trattamento” che procuri la morte?

Dopo la sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale, emessa nel corso del processo Cappato, il malato irreversibile ha diritto di essere aiutato dal servizio sanitario a togliersi la vita se la sofferenza è insopportabile? Lo esclude il Tribunale di Ancona con una propria ordinanza del 9 giugno 2021. A fronte del reclamo del richiedente che insisteva affinché gli fosse riconosciuto il diritto ad aver somministrata la dose letale adeguata di Tiopentone, necessaria per porre fine alla propria vita e affinché il Tribunale ordinasse all’azienda sanitaria di disporgliene la prescrizione, l’ordinanza conferma che “non può ritenersi sussistente un obbligo di provvedere in tal senso a carico della struttura sanitaria pubblica”.

La richiesta del malato, affetto da una grave paralisi, era avanzata sulla base della sentenza n. 242/2019 con cui la Corte costituzionale ha affermato l’illegittimità dell’articolo 580 del Codice penale nella parte in cui non esclude la punibilità di chi agevola il suicidio del malato affetto da una patologia irreversibile e da sofferenze intollerabili, tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, che abbia deciso autonomamente e consapevolmente di porre fine alla propria vita. L’esclusione di punibilità si applica, se le condizioni ora elencate sono verificate dal servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico competente.

Il Tribunale di Ancona afferma che l’esclusione di punibilità opera sul piano penale, mandando esente da pena chi agevola l’altrui suicidio quando sussistono le quattro condizioni di cui si è detto. Però, siccome “non si può ritenere che tutto ciò che è tollerato o lecito sia altresì dovuto”, l’esenzione dalla pena “non consente di riconoscere un diritto soggettivo ad essere assistiti nel suicidio tramite la somministrazione di un farmaco letale”; pertanto, neppure sussiste un obbligo per il personale sanitario di prestare aiuto a chi chiede di essere assistito a suicidarsi.

Tuttavia, il tribunale ha ordinato alla struttura sanitaria di accertare, previo parere del Comitato etico, la sussistenza in capo al richiedente delle condizioni indicate dalla Corte costituzionale quale presupposto per la non punibilità del medico che si rendesse disponibile a collaborare al suicidio. Così pure l’azienda sanitaria dovrà accertare se l’assunzione del Tiopentone garantisca una morte rapida, indolore e dignitosa. Ove l’accertamento di tali condizioni sia positivo, è presumibile che il malato si rivolgerà ad un medico di fiducia perché agevoli il proprio suicidio.

L’ordinanza di Ancona, per queste ragioni, si colloca in uno scenario preoccupante perché crea le premesse per il compimento di un atto eutanasico, peraltro obliterando la previsione della stessa sentenza costituzionale, ove afferma la necessità che il malato sia previamente coinvolto in un percorso di cure palliative strumento prezioso per “rimuovere le cause della volontà del paziente a congedarsi dalla vita”. Il caso evidenzia ancora una volta come la strada imboccata dalla Corte costituzionale, pur non affermando l’esistenza di un diritto al suicidio, non sia la via da seguire di fronte al problema della sofferenza dei malati affetti da gravi patologie. Il problema va affrontato proclamando fermamente, con una legge del Parlamento, l’indisponibilità di ogni vita umana, in qualsiasi situazione la persona si trovi.

In questa direzione si muove altresì la recente pronuncia del Tribunale di Roma emessa il 22 giugno 2021 con cui è stato rigettato un ricorso analogo. Il Giudice della Capitale ha stabilito che proprio alla luce dell’attuale quadro normativo – cioè vigenti l’articolo 580 comma 1 del Codice penale, gli articoli 1, 2 e 4 della legge n. 219/2017 – non si possa riconoscere un diritto all’aiuto al suicidio in capo al richiedente che contempli, peraltro, un corrispettivo obbligo di aiuto al suicidio in capo al medico o al personale sanitario.

Il Tribunale di Roma ha posto in evidenza come neanche successivamente alla sentenza Corte costituzionale n. 242/2019 l’ordinamento riconosca un diritto di aiuto al suicidio, poiché la Corte “al chiaro fine di sgombrare il campo da possibili equivoci, ha puntualizzato che la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici”.

La Consulta peraltro, nella sentenza come nella precedente ordinanza n. 207/2018 – ha precisato non soltanto che la eventuale somministrazione del farmaco letale è una opzione – quindi né un diritto né un obbligo – ma che per di più “deve essere sottolineata l’esigenza di adottare opportune cautele affinché l’opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare entro un breve lasso di tempo la morte del paziente non comporti il rischio di alcuna prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua, ove idonee a eliminare la sua sofferenza in accordo con l’impegno assunto dallo Stato con la citata legge n. 38 del 2010. Il coinvolgimento in un percorso di cure palliative deve costituire, infatti, un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente”.

Poiché il ricorso verteva sulla richiesta di una ulteriore declaratoria di illegittimità costituzionale dell’articolo 580 del Codice penale, il Tribunale di Roma lo ha rigettato sul presupposto che, come ribadito dalla Corte Costituzionale, su tale materia esiste la discrezionalità del legislatore, e quindi la doglianza costituzionale è manifestamente infondata. Resta il dato obiettivo di pronunce di merito che affermano tesi specularmente opposte, sulla base della medesima sentenza del Giudice della leggi.

(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino

Aggiornato il 12 luglio 2021 alle ore 11:26