La menzogna di Raffaella icona gay

Per spiegare il segno lasciato da Raffaella Carrà occorrerebbe una “fenomenologia” come quella che nel 1961 Umberto Eco scrisse su Mike Bongiorno. Perché la storia di Raffaella non è solo il racconto di una “regina della tivù”, ma è anche la narrazione di una star che ha incrociato un’epoca intrisa di significati. Intendo dire che non si può decifrare l’odierna Italia del disegno di legge Zan senza passare per gli anni Sessanta e Settanta delle battaglie sul divorzio e poi per quel ventennio che fino al Novanta ha visto nella Rai servizio pubblico “il centro del sistema”, come lo ha definito Marcello Veneziani. E di “mamma Rai” fulcro sociale e culturale Pippo Baudo e Raffaella Carrà sono stati i pilastri. A noi de L’Opinione corre perfino l’obbligo andare oltre la celebrazione artistica, perché proprio il fondatore Arturo Diaconale insieme con la squadra della redazione romana de Il Giornale, sotto la direzione di Indro Montanelli, dalle colonne del quotidiano disputò la grande battaglia contro il politicamente corretto e contro l’omologazione che ebbe nel fortino di viale Mazzini uno dei quartier generali. Per spiegare questo aspetto singolare e la genesi della “Carrà amata dagli italiani” occorre fare riferimento a quel fenomeno social-politico che è stato il “nazional–popolare”, di cui “casco d’oro” è stata l’indimenticabile e osannata interprete.

La definizione fu lanciata da Enrico Manca, il socialista dei governi Cossiga e Forlani, presidente della Rai dal 1986 al 1992. Durante il debutto di Fantastico 7 condotto da Pippo Baudo, il presidente Manca in conferenza stampa scagliò quell’espressione per portare l’attacco al “regime televisivo democristiano”. Aspro e sgradevole, così volle apparire Manca contro l’Italietta canora e ballerina del piccolo schermo con cui la Balena Bianca coltivava il suo bacino elettorale. Per la verità si era verificato un episodio increscioso: Baudo aveva ospitato un numero feroce di Beppe Grillo, che già allora col suo giustizialismo selvaggio aveva offeso i craxiani etichettandoli come disonesti. Ne conseguì una scomunica e il presidente Manca se la prese con super Pippo attaccandolo sul fronte di cui era l’indiscusso anfitrione. “Considero – reagì risentitissimo il presentatore – questa definizione un’offesa. Vorrà dire che d’ora in poi farò solo programmi regionali e impopolari”.

Ma l’attacco non era solo critica televisiva, perché nello stesso tempo nella cabina di regia della Rai, cioè alla direzione generale, si avvicendarono prima Biagio Agnes (1982-1990) e poi Gianni Pasquarelli (1990-1993), che sono stati gli uomini forti della sinistra Dc e del progetto catto-comunista.

In sintesi, dopo la clamorosa sconfitta del divorzio, nel 1974, con l’Italia sotto il ricatto del sorpasso, i democristiani pensarono di contrastare l’avanzata “atea e sessista” creando un forte asse al centro e lanciando il centro-sinistra in accordo con la sinistra cattolica. E quel piano anticomunista democristiano, oltre che in piazza del Gesù e in Ciriaco De Mita, ebbe i suoi riferimenti in viale Mazzini, dove il catto-comunismo trovò la sua declinazione mediatica. Il più determinato fu sicuramente Biagio Agnes: dirigente della leva dei democristiani irpini, fratello di Mario Agnes già esponente dell’Azione Cattolica e direttore de L’Osservatore Romano, il demitiano Agnes rivoluzionò l’informazione inaugurando il tiggì delle 13 coi giornalisti in video e gettò le basi della terza rete Rai. Erano gli anni della tripartizione: Rai Uno ai cattolici, Rai Due ai socialisti, Rai Tre ai comunisti. E gli anni del “compromesso storico”, quel patto tra credenti e avversari del radicalismo rosso che Amintore Fanfani aveva chiarissimo fin dal ‘74 quando volle scendere muro contro muro contro il Pci. Il “cavallo di razza” non pensava solo al governo e al Quirinale, pensava a ciò che urlava nelle piazze: “Prima sarà il divorzio, poi l’aborto e poi verranno i matrimoni omosessuali”, tuonò a Caltanissetta il 26 aprile 1974. Non era una Cassandra o un bigotto, oggi si può dire. Fanfani conosceva il piano, la lunga sfida dei comunisti alla società italiana non solo politica ma “liquida”, come si dice oggi, cioè imperniata sui diritti, sulle emancipazioni e sulle libertà.

Una sfida alla morale, al credo, ai valori, al profilo identitario della nazione per rendere “tutti di sinistra” omologando con l’esca delle libertà sensibili, delle emancipazioni e della presunta tolleranza. Dopo Biagio Agnes venne l’umbro Gianni Pasquarelli, ex direttore de Il Popolo assunto in Rai durante il quarto governo Fanfani, artefice di una Rai forte che non piaceva molto alla destra e soprattutto grande avversaria di Mediaset, ma anche una Rai aperta ai cambiamenti e alle emancipazioni ricondotte “in famiglia”. Di questa Rai laica ma spirituale, credente ma non solo vaticana, divorzista e divorziata, che ammiccava alle liceità del privato, Raffaella Carrà è stata l’inossidabile madrina. Ballerina, cantante, intrattenitrice, grande professionista, ma anche convivente al di fuori del matrimonio prima di Gianni Boncompagni e poi di Sergio Japino, specchio di quel Paese meno chiuso e ingessato. Anche lei, come Pippo Baudo, non sfuggì al fascino di Silvio Berlusconi, che la portò in Fininvest nell’87 sull’onda del successo di Pronto Raffaella e un camion di azalee.

Furono gli anni degli spot e della nota marca di dadi che fece di lei l’amatissima dalle famiglie italiane. Raffaella col suo ombelico, il suo tuca tuca ma anche col volto da beniamina piaceva dai bambini alle nonne senza sgomentare i giovani. “Per me il mondo non si divide in etero e in gay, ma in creature”, ha ripetuto anche di recente, dopo che le avevano attribuito simpatie Lgbt facendola passare, come ha voluto forzare qualcuno, addirittura per un’icona gay. E dopo che un periodico catalano ha scritto che la Carrà, amatissima dalla Spagna post-franchista, votava comunista. Solite strumentalizzazioni rosse. Raffaella Carrà è stata l’icona dell’Italia articolo 1 della Costituzione, quella fondata sul lavoro e sull’impegno, nazionale e di talento, laica e misericordiosa, italiana e internazionale, di tutti come era lei. Non certo l’Italia spregiudicata, decadente e divisiva dei falliti comunisti.

Aggiornato il 09 luglio 2021 alle ore 12:27