Il radical chic e la (f)lotta di classe contro chi compra i superyacht dell’industria nautica

Il vizio del radical chic è travestirsi di volta in volta da povero, da represso, da ultimo della classe (operaia). Ogni due giorni dichiara una guerra a parole agli ambasciatori di Francia e Inghilterra, forse per dimostrare di essere ancora un gallo nel pollaio. Solo che le parole feriscono e fanno danni più dei carri armati, soprattutto se non ci si accorge del loro peso nell’economia. Il tutto a volte avviene semplicemente “Per qualche dollaro (o follower, o voto) in più”. Quando si è in buona fede, poi, il rischio è di ottenere risultati opposti ai desideri, ovvero che il povero impoverisca ancora di più, ed è di questo che vogliamo scrivere. Prendiamo il caso di una delle più performanti industrie nazionali: quella dei cantieri navali dove si costruiscono i megayacht per i “ricchi”. Si può vendere invidia sociale per guadagnare voti, dollari e talleri, o lettori? Direi di no. Però si può fare un minestrone alla hipster, tenendo insieme la critica al capitalismo con la necessità di utilizzarlo, in mancanza di alternative. Parole contro che si mischiano a verità in favore, nascoste. È un gioco che ritroviamo ne Il Venerdì di Repubblica del 25 giugno 2021. È estate, e nelle pagine iniziali del settimanale ci sono due articoli dedicati alla cantieristica da diporto.

Il primo ha un titolo da Lotta Comunista o da Manifesto: “C’è chi yacht e chi no”. Il piglio è quello di chi con la brioche in bocca critica la regina Maria Antonietta, e con un tono degno di Karl Marx (persona molto ricca, anche se non aveva lo yacht) o di Rosa Luxemburg (che sostò nella Riviera ligure o in Costa Azzurra, e chissà se salì sul ponte di un brigantino oppure su un gozzo da pesca). Leggo e m’incuriosisco: si citano i costi del corrimano di uno yacht (il termine tecnico marinaresco sarebbe “battagliola”), pagato ben 300mila dollari, o il prezzo del gigayacht di Jeff Bezos (500 milioni). Mi accorgo (che strano) che anche Steven Spielberg o Giorgio Armani, Valentino Rossi, Cristiano Ronaldo e Zlatan Ibrahimović posseggono yacht o superyacht. Si citano altri capricci degli armatori, come le due vasche da bagno pagate 100mila euro. Certo che ti viene l’invidia, se pensi alle spese di certa gente. Comunque poi giustamente l’articolista parla dei cantieri navali di Viareggio, in particolare di Rossinavi, un’azienda che è il frutto delle capacità dell’imprenditore Federico Rossi, il quale a 13 anni – finita la terza media – ha piantato gli studi e ha iniziato a lavorare sodo. Si cita qualche numero dell’industria nautica, cresciuta nei mesi del Covid. Ne nasce un mix schizoide per il lettore, il cui risultato secondo me è il risentimento nei confronti di Ronaldo e dei suoi fratelli armatori.

Però un risentimento acritico, vacuo, frutto di un mix criogenico dal punto di vista culturale e politico. Ma la (f)lotta di classe dispiega le sue corazzate nell’articolo seguente, firmato da Elisa Manisco, titolato soavemente “Ma qualcuno ce l’avrà sempre più lunga” (intendendo: la barca). Qui la lotta si fa più dura, grazie all’intervista a Roberto D’Agostino, che esplode in uno pasoliniano distinguo tra i vecchi proprietari di yacht (si citano Aristotele Onassis oppure Gianni Agnelli (che peraltro sul suo yacht ne combinò più di Aristotele e di Carlo in Francia, anche a Positano con Jackie Kennedy, e prima della morte di John).

Il fondatore di Dagospia contrappone alla classe dei vecchi yachtmen il plebeismo dei nuovi ricchi, non senza citare ancòra l’eternamente crocifisso Flavio Briatore e il suo yacht Force Blue. L’autrice dell’articolo ricorda che la barca di Briatore fu “confiscata dallo Stato e poi rivenduta a Bernie Ecclestone”, omettendo chissà perché il fatto che lo Stato ha venduto il Force Blue a un prezzo stracciato, e con troppa fretta, visto che alla fine Briatore è stato prosciolto dalla Magistratura. Insomma per D’Agostino e la sua intervistatrice è sempre il tempo dell’edonismo reaganiano contrapposto al cafonal all’italiana. Ma perché attaccare chi compra barche dei cantieri navali di Viareggio e dintorni? Intervistato e intervistatrice scivolano nel freudiano: chi compra yacht costruiti nei cantieri navali di Viareggio e dintorni lo fa per “far capire che è ricco”, perché oggi non si distinguono più i poveri dai ricchi, perché “tutti si vestono con le stesse cose orrende”. Beh, io qualche differenza la vedo tra i mocassini Summer Walk della Loro Piana in pelle di caimano (prezzo 4490 euro), e le sneakers da me pagate 20 euro.

Macché, per l’inchiesta del Venerdì di Repubblica i ricchi hanno capito “grazie” al Covid che in un lampo possono diventare i “più ricchi del cimitero”, e allora vale la pena di spendere milioni di euro, pur di “mantenere la privacy” su isole lussuose e in movimento sul mare, sulle quali sono sovrani assoluti, anche se a bordo è una “noia mortale” perché nessuno vuole andare a tenere compagnia al proprietario e alla di lui moglie. Per D’Agostino “Peggio di uno yacht c’è solo San Vittore. È una galera, capisci?”. Chiederò conferme a uno dei mie amici che lavorano come skipper a bordo di barche da 50 metri. Ma La Repubblica, con la sua vocazione di giornale di (f)lotta e di governo, sa che il settore barche di lusso in Italia crea posti di lavoro sicuri e ben pagati? Per fare uno yacht si utilizzano una cinquantina di diversi artigiani, ognuno specializzato nel suo campo, oltre ad altri venti diversi mestieri. Il Venerdì riporta i dati di Banca Intesa sul settore nautico: nel 2020 il settore è stato quello più in crescita e l’export è cresciuto del +47,8 per cento. Ok, “C’è chi yacht e chi no”, ma tra i “chi no” sono da includere anche le paghe su un gigayacht (quelli sopra i 50 metri), che sono di 6mila euro per il comandante e di 2mila euro per i marinai.

Certo qualcuno dei marinai è stagionale, ma riceve comunque un rimborso dalla disoccupazione nei mesi invernali. In sostanza, comprare uno yacht è una sorta di autosacrificio in cui alcuni ricchi, per passione o delirio, buttano letteralmente via milioni di euro. In effetti succedeva così in molte antiche culture (pensiamo al Carnevale, al Giubileo ebraico in cui si rimettevano tutti i debiti) com’è spiegato in un saggio di Georges Bataille sullo spreco sacro o “dépense” (La parte maledetta, Bollati Boringhieri). C’è una creatività delirante nel dotare la propria barca di otto (8!) moto d’acqua da 500 chili ciascuna, oppure nello spendere 250mila euro per impreziosire la cucina di bordo con piatti e bicchieri adeguati. Ma questo spreco serve anche a ridistribuire denaro, e soprattutto a creare posti di lavoro più sicuri di quelli dei classici carrozzoni di cui l’Italia è rimpinzata. A volte i ricchi aiutano i meno ricchi, anche se non lo sanno. A volte i difensori dei poveri non li aiutano ma anzi li affondano di più.

I dati del settore nautico in Italia

Il fatturato del mercato nautico 2020 è stato di 4,8 miliardi di euro. Nel 2020 l’Italia si è confermata il primo paese al mondo per gli ordini di superyacht (quelli sopra i 24 metri). Il 50 per cento degli ordini di superyacht del 2020 è stato fatto in Italia. Cresciuta la cantieristica mentre il settore turistico legato alla nautica si è contratto, a causa del mancato apporto dall’estero. Il leasing nautico vale 593,7 milioni di euro, in crescita del 15,9 rispetto al 2019. Il 93 per cento delle aziende nautiche italiane prevede di crescere o restare stabile nel 2021. La Liguria ha il maggior numero di unità da diporto fino ai 24 metri fuori tutta. Quanto ai porti attrezzati per il diportismo: comandano Sardegna e Sicilia, seguite dalla Liguria.

(Dati Monitor n. 3, 2020-2021, lanauticaincifre.it)

Aggiornato il 08 luglio 2021 alle ore 11:59