
A tutti quanti è capitato, almeno una volta nella vita, passeggiando per strada o dal finestrino dell’auto, di vedere la sigla “Acab” scritta sulla facciata di qualche palazzo o su un qualche muro cittadino. Quella sigla ha un significato molto preciso: sta per “All cops are bastards”, che in italiano potrebbe essere tradotto come “tutti gli sbirri sono dei bastardi”. Si tratta di un modo di dire semplicemente vergognoso, come del resto gli ambienti nei quali è in voga: centri sociali, formazioni anarco-insurrezionaliste, movimenti di estrema sinistra, sub-culture punk e teppisti di strada. Eppure sembrerebbe essere un principio recepito e ampiamente applicato dallo Stato italiano: almeno a giudicare da come esso si comporta nei confronti di tutti quegli uomini e quelle donne che lo servono indossando una divisa.
I fatti di cronaca che riguardano i presunti “eccessi” delle forze dell’ordine abbondano e su di essi potremmo scrivere non un articolo, ma un libro. Mi limiterò a considerare gli ultimi due, quelli più recenti: il ferimento dell’immigrato clandestino che, armato di coltello, si aggirava bellamente per il centro di Roma, vicino la Stazione Termini; l’inchiesta cui sono stati sottoposti alcuni agenti della Polizia penitenziaria del carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, accusati di aver ripetutamente maltrattato e usato violenza, fisica e psicologica, sui detenuti.
C’era da aspettarselo che i benpensanti di questo Paese si sarebbero indignati più per il fatto che un poliziotto abbia sparato a un immigrato, che non per il fatto che quell’agente sia stato costretto a sparare perché c’era in giro un pazzo armato di coltello che lo minacciava. Come avrebbe dovuto agire? Avrebbe dovuto chiedere a un soggetto armato e chiaramente pericoloso di fermarsi? Avrebbe dovuto promettergli che, se avesse gettato l’arma e si fosse lasciato ammanettare, gli avrebbe comprato un gelato? Ma soprattutto, mi chiedo cosa sarebbe successo se non avesse sparato: qualcuno ci avrebbe rimesso la pelle, e di sicuro non sarebbe stato il delinquente africano, ma uno degli agenti o un ignaro passante.
A costo di sembrare terribilmente cinico, devo dire che non mi indigna per niente e che non mi scalfisce minimamente il fatto che un agente di polizia in servizio abbia aperto il fuoco contro un soggetto armato, dopo che questo aveva più volte ignorato l’ordine di fermarsi e di gettare il coltello. A indignarmi, cari buonisti della domenica, non è il poliziotto che spara per difendersi o per difendere gli altri: sta facendo il suo lavoro, quello che viene pagato per fare. A indignarmi è che ci sia gente tanto pericolosa in giro: è segno del fatto che la cittadinanza è abbandonata a se stessa e che lo Stato non fa l’unica cosa che dovrebbe fare, vale a dire proteggere le persone e assicurare l’ordine. Se fossimo un Paese normale la cosa non scandalizzerebbe nessuno. Ma noi non siamo un Paese normale e probabilmente siamo troppo presi dai deliri politicamente corretti e dai sentimentalismi vari per renderci conto di quanto naturale sia stata la reazione dell’agente che ha aperto il fuoco.
Le pistole che vengono date in dotazione alle forze dell’ordine a qualcosa servono, evidentemente. Servono a proteggere le brave persone dagli squilibrati come l’immigrato di cui sopra, dai soggetti pericolosi e da tutti coloro che minacciano l’incolumità pubblica. Sta di fatto che il poliziotto al centro della vicenda è ora sotto inchiesta e dovrà difendersi del più orribile dei crimini che possano essere commessi in Italia: fare il proprio lavoro e farlo con diligenza.
Nel secondo caso, abbiamo cinquantadue agenti della Polizia penitenziaria accusati di maltrattamenti dai detenuti. I fatti risalgono allo scorso aprile, in occasione di una protesta da parte dei reclusi: i sorveglianti avrebbero risposto manganellandoli, denudandoli, umiliandoli e portandoli in isolamento senza motivazione. Ora indaga la Procura di Caserta. Nel frattempo, gli agenti sono stati sottoposti a misure cautelari e dovranno rispondere dei reati di tortura, maltrattamenti, lesioni personali, favoreggiamento personale e depistaggio. Si leva la protesta da parte dei sindacati di polizia che, tra le altre cose, chiedono di smetterla di dare un’immagine alterata delle forze dell’ordine: non picchiatori sanguinari, ma padri, madri e figli che servono il Paese con onore e con dignità, mettendo a rischio la loro incolumità per garantire quella degli altri.
Immagino sia facile, per i giudici e i benpensanti puntare il dito contro la “brutalità delle forze dell’ordine” o contro le “mattanze ai danni dei detenuti”. Immagino sia facile, per costoro, avere compassione di ladri, assassini e stupratori e raccomandare mitezza e pazienza alle forze dell’ordine. Qualcuno di loro avrà idea di cosa significa fare servizio in un carcere e avere a che fare con gentaglia di quel tipo? Avranno idea, i “compassionevoli” di questo Paese, di cosa voglia dire fare un lavoro in cui si viene quotidianamente riempiti di insulti o in cui si rischia di essere picchiati, feriti o addirittura uccisi dai galantuomini che stanno dietro le sbarre, e fare tutto questo per una vera e propria miseria a fine mese? Certo che no: l’importante è pontificare dal proprio ufficio con aria condizionata o dal proprio salotto divorando tartine al caviale.
Ironia della sorte: proprio poche ore fa gli agenti dello stesso penitenziario al centro dei fatti sono stati aggrediti e picchiati selvaggiamente da sei detenuti extra-comunitari che avevano dato fuoco alla loro cella per protesta. Ma su questo fatto tutto tace: come su tutti gli eventi simili che ogni giorno si verificano nelle carceri italiane. Ah già! Dimenticavo il doppiopesismo dei buonisti, per il quale se i poliziotti perdono la calma di tanto in tanto sono dei picchiatori pericolosi (e anche un po’ fascisti), ma se i detenuti violano le regole del penitenziario dove sono reclusi lo fanno solo perché “stressati” dalla situazione, dal sovraffollamento, dalla castità imposta, dal cibo che non è di loro gradimento, dalla mancanza di saponette alla lavanda e da chissà quali altre idiozie.
Siamo in uno Stato di diritto? Certo che sì, ma ciò non vuol dire che i poliziotti aggrediti o in servizio non possano aprire il fuoco, se la situazione lo richiede; e non significa nemmeno che gli agenti di Polizia penitenziaria non debbano far rispettare il regolamento ai detenuti, né che le carceri debbano essere dei resort. Chi si riempie la bocca di termini come lo Stato di diritto, dovrebbe pensare che le garanzie costituzionali non sono solo quelle dei detenuti, ma anche quelle di chi indossa una divisa – che non è affatto detto debba lasciarsi ammazzare, picchiare o insultare senza reagire – e della cittadinanza – che trae grande beneficio dall’assenza di criminali per le strade e ancor più dal loro allontanamento dalla società, in un luogo, come il carcere, che dovrebbe insegnare il valore del rispetto delle regole, e non essere una prosecuzione al chiuso della vita criminale, come troppo spesso avviene.
Per il resto, uno Stato che persegue i suoi servitori che si sforzano di garantire l’ordine, la sicurezza e la disciplina e che protegge i criminali ha semplicemente fallito. Bisognerebbe sempre ricordare che la mitezza coi colpevoli è il peggior insulto agli innocenti e agli onesti ed è un pessimo segnale per tutti coloro che hanno cattive inclinazioni, pur non avendo ancora fatto niente di male.
Aggiornato il 30 giugno 2021 alle ore 12:18