Illegittimo il carcere per i giornalisti

La Corte costituzionale, dopo un anno di inerzia del Parlamento e di mancato intervento del Legislatore, ha messo due paletti in materia di sanzioni riguardanti i reati di diffamazione.

Primo: è illegittimo l’articolo 13 della legge sulla stampa (numero 47 del 1948) che faceva scattare obbligatoriamente, in caso di condanna per diffamazione a mezzo stampa, compiuta mediante l’attribuzione di un fatto determinato, la reclusione da uno a sei anni insieme al pagamento di una multa. Secondo: la pena detentiva (carcere) prevista dall’articolo 595, terzo comma, del Codice penale è legittima solo per “fatti di eccezionale gravità”.

Una questione da lungo dibattuta e sulla quale i giudici della Consulta si sono pronunciati sulla base della richiesta di incostituzionalità del carcere per i giornalisti sollevata dai Tribunali di Bari e di Salerno. La decisione non accoglie in pieno le richieste dell’Ordine dei giornalisti illustrate in udienza dal presidente Carlo Verna, che chiedevano la cancellazione – del tutto – dall’ordinamento italiano circa la previsione del carcere, perché il lavoro giornalistico non può essere pregiudicato dal pericolo di una sanzione che ne impedisca il libero esercizio.

Le norme in vigore avevano costituito sempre una specie di “taglioladella libertà di stampa ed erano state censurate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Prendendo in esame i casi di Maurizio Belpietro e Alessandro Sallusti, la Corte di Strasburgo aveva già sottolineato che il carcere per diffamazione poteva essere previsto solo per condotte di eccezionale gravità, come i casi in cui la diffamazione implichi un’istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi di odio.

Con la sentenza del 22 giugno i giudici hanno ritenuto che il Legislatore aveva avuto il tempo necessario a risolvere la questione. “Resta attuale – aggiungono nella nota esplicativa della decisione – la necessità di un bilanciamento, che la Corte non ha gli strumenti per compiere, tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione individuale, anche alla luce dei pericoli maggiori connessi all’evoluzione dei mezzi di comunicazione”. A questo punto solo i giudici di merito hanno la possibilità di applicare la sanzione penale e solo se il fatto sia di eccezionale gravità. C’è già un precedente da parte della Corte di Cassazione, che ha annullato una condanna a pena detentiva per diffamazione aggravata a mezzo Facebook.

Erano almeno 20 anni che i contrasti politici bloccavano qualsiasi soluzione in questa delicata e complessa materia. Di occasioni il Parlamento ne ha perdute molte. L’abrogazione del carcere non risolve il flusso inarrestabile dei processi per diffamazione. Personalmente ho subito un processo per 6 anni prima che venisse deciso “il fatto non sussiste”.

La sentenza è arrivata in un momento delicato del giornalismo: calano i giornalisti, cambia il mestiere, gli editori sono stati sostituiti dalle piattaforme. E c’è un’ultima manovra del Consiglio di amministrazione dell’Inpgi che sta spaccando la categoria e viene considerata “cervellotica e insulsa” come scrive Michele Mezza, un tempo leader del sindacalismo Rai. Un gruppo di giornalisti sta inviando una diffida ai vertici dell’Istituto di previdenza contro la previsione di introdurre un contributo che possa configurarsi come prelievo sulle pensioni in essere e sugli stipendi degli “attivi”, considerato che già il Consiglio di Stato aveva dichiarato illegittima la reiterazione del prelievo varata per il triennio 2017-20, con l’avallo dei ministeri vigilanti.

Aggiornato il 23 giugno 2021 alle ore 12:45