Nell’intreccio di pensieri che descrivono la vita umana, la felicità è tra i più dinamici e difficili da percepire, ma è anche il più immediato e irrinunciabile. A che cosa possono ambire gli individui se non alla felicità? Come possiamo vivere e sentirci attivi e padroni di noi stessi, se siamo nel dolore o nella desolazione? È pur vero che noi esseri umani non vorremmo neppure essere obbligati alla felicità come accade nell’immaginifico scenario de Il Mondo Nuovo di Aldous Huxley, dove è impossibile provare dolore o avere apprensione per il domani o nutrire desideri non realizzati, situazione distopica che può portare, addirittura, al paradosso di desiderare per sé il diritto ad essere infelici.
Inoltre, non solo gli uomini felici sono pochi ma la nostra epoca sembra contrassegnata da una infelicità mediamente molto diffusa. Alcuni autori hanno rilevato nelle società più avanzate, in cui cioè lo standard di qualità della vita è più elevato, l’esistenza di alcuni indici di infelicità: ad esempio l’aumento dei suicidi; la crisi delle famiglie, certamente favorita da una legislazione differente da quella del passato, ma anche, a mio avviso, espressione del fatto che molti uomini non trovano più nel matrimonio e nella famiglia uno dei luoghi possibili della propria realizzazione e della propria felicità; l’aumento dei casi di patologie psichiche, molte delle quali (dicono gli psicologi) sono prodotte da una sorta di rassegnazione e di profonda delusione nei confronti della vita; il ricorso indiscriminato, come surrogati della felicità, al sesso ed alla droga.
Eppure, questa nostra società sembra molto tenacemente impegnata a conseguire la felicità, anche perché, a partire dall’Illuminismo, si è diffusa nella mentalità degli uomini occidentali la convinzione dell’esistenza di un diritto alla felicità, dove per diritto non si intende più un “diritto a potersi dar da fare per conseguire la felicità senza essere ostacolati da qualcuno”, bensì un “diritto a ricevere la felicità”. Questa nozione di diritto alla felicità implica che qualcuno ha il dovere di procurarcela e che se qualcuno non è felice è vittima di un’ingiustizia, perché vuol dire che chi aveva quel dovere non lo ha assolto.
Il diritto alla felicità ha potuto allora generare due forme di prassi, prevalenti nel nostro tempo, entrambe convergenti verso lo stesso obiettivo ed entrambe contraddistinte dal fallimento. Da un lato, il diritto alla felicità genera il radicalismo individualistico, con il suo prassismo ed il suo attivismo, perché sospinge il soggetto a conseguire spasmodicamente il massimo possibile di soddisfazione e di felicità. Dall’altro, genera a livello politico-sociale lo statalismo del Welfare State e, a livello individuale, la connessa disposizione pratica sovente passiva dei membri che ne fanno parte: non riuscendo a procurarsi la felicità da solo, l’uomo attende dalla società e in ultima analisi dallo Stato la realizzazione di questo diritto, perché reputa naturale che la società fornisca tutto quanto è necessario perché questo diritto sia soddisfatto.
Possiamo richiamare due importanti dichiarazioni, che riflettono le aspirazioni ed il fervore del costituzionalismo di fine Settecento e nelle quali è proclamato il diritto degli individui ad essere felici. Più esattamente abbiamo il riconoscimento del diritto al “Perseguimento della felicità”, qualificato come inalienabile al pari del diritto alla “vita” e a quello della “libertà” nella Dichiarazione di Indipendenza dei tredici Stati americani, e riscontriamo l’affermazione del fine della “felicità di tutti” nella successiva Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, che ha rappresentato il primo fondamentale documento costituzionale della Rivoluzione francese. Quindi, pur se proclamato in documenti dotati di una portata giuridica di grado minore di quella propria delle costituzioni successive degli Usa e della Francia, il diritto alla felicità non è qualcosa di estraneo al linguaggio e ai principi del Diritto costituzionale. Se facciamo un confronto con la Costituzione italiana, vediamo un punto di contatto nell’articolo 3, dove si parla di pieno sviluppo della persona umana ma non viene citato esplicitamente il diritto alla felicità.
Il diritto alla felicità dovrebbe configurarsi come un corollario della tutela dei diritti inviolabili della persona e del principio personalistico, per cui se da un lato si tutela la persona umana in quanto tale appare scontato che occorre tutelarne anche lo stato emotivo in cui la persona si sente pienamente realizzata. Il comma 2 dell’articolo 3 della Costituzione, a conferma di ciò, come si è visto, prevede che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Pertanto, il “pieno sviluppo della persona umana” non si può garantire senza una rimozione degli ostacoli che impediscano a tutti, in uguale misura, di raggiungere la felicità.
In questo solco si inserisce la proposta di riforma costituzionale dell’articolo 3 in materia di riconoscimento del diritto alla felicità (proposta di legge costituzionale n. 2321 del 23 dicembre 2019, Bellucci-Meloni e altri), inserendo all’inizio dell’articolo 3 che “tutti i cittadini hanno diritto di essere felici”. Jeremy Bentham sosteneva che tutti gli uomini sono governati dal piacere e dal dolore, tutti desiderano il piacere e rifiutano il dolore. Quindi la ricerca della massima utilità e il principio supremo sia per i singoli che per i governanti, sia per la vita morale che per quella politica. Nel decidere quali leggi adottare e quali politiche perseguire, il Governo deve seguire la prospettiva di rendere il più possibile felice la comunità nel suo complesso, presa come un tutto unico.
In altri termini la somma di tutti i benefici derivante da una proposta legislativa, sottraendone i costi, deve fornire una quantità maggiore di felicità collettiva rispetto a proposte alternative. Sono passati alcuni secoli da allora ma buona parte dell’umanità è ancora in cammino per raggiungere, quanto meno, il soddisfacimento delle proprie esigenze di primaria sussistenza. Le moderne Costituzioni sembrano essere oggi abbastanza caute nel proclamare il diritto a un bene così agognato, ma anche sfuggente, come l’essere felici. Allora ben venga l’inserimento nella nostra Costituzione del diritto alla felicità, coerente con un’idea di felicità che tenga conto anche degli “altri”, affinché da un lato sia diffuso ovunque un livello adeguato di sviluppo sociale, di benessere materiale e di democrazia, e dall’altro siano valorizzati i “beni relazionali”, quel sistema di relazioni in cui ciascun individuo si colloca “con” e “tra” gli altri.
Aggiornato il 15 giugno 2021 alle ore 12:58