
Chi non ha un ricordo della grande Carla Fracci. “Ha onorato, con la sua eleganza e il suo impegno artistico, frutto di intenso lavoro, il nostro Paese”, ha detto il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. La piccola tranviera divenuta una étoile immortale, come è stata definita tra i tanti appellativi magici per raccontare il nucleo esistenziale di questa regina della danza, nata semplice e salita alla gloria con grazia ineguagliabile e un impegno coriaceo.
La vidi nel 1972 al Teatro dell’Opera di Roma in “Giselle” in coppia con il mitico russo Vladimir Vasiliev. Avevo sedici anni e mia madre ci portava a vedere i grandi spettacoli di allora, il grande teatro, come Milva e Domenico Modugno ne “L’opera da tre soldi”, altra favolosa rappresentazione di quel tempo. Entrare al Teatro dell’Opera era un rituale, i luoghi avevano un senso e un rispetto. “Giselle” è il balletto per antonomasia, con tutti quei tutù candidi, le Villi eteree con le coroncine di fiori, fantasmi bianchi di ragazze morte prima del matrimonio. La nostra educazione sentimentale avveniva in tal modo, così i temi duri della morte e dell’amore fatale scivolavano nei cuori. Con la grazia di Carla, che avrebbe poi danzato questa opera con Rudolf Nureyev nel 1980. Ma quella interpretazione con Vladimir Vasiliev resta un unicum.
Ebbi occasione di intervistare Vasiliev qualche anno dopo, all’Hotel Continental di Roma, dove alloggiava durante una tournée con il corpo di ballo di Mosca. Era bellissimo, biondo, affascinante, un principe, col corpo statuario ma la leggerezza di una foglia. Mi spiegò che Carla Fracci era una ballerina diversa da tutte le altre. “La più grande Giselle del mondo” disse, allargando le braccia e mimando quei voli d’angelo che riusciva a imprimere agli arti. Parlava così, lui che era il marito di Ekaterina Sergeevna Maksimova, una delle danzatrici più eccelse. Aveva ragione. Sarà stata la mia giovane età: la trama di “Giselle”, il talento della coppia, quella sera al Teatro dell’Opera mi sembrò di veder ballare l’amore.
Tempo dopo mi ero trasferita a Milano ed ebbi l’incarico per la rivista “Gioia” di un’intervista alla signora Fracci. Mi spiegarono che i contatti li teneva il marito, Beppe Menegatti, il quale era tutto: consorte, padre, manager.
“Buongiorno, sono Donatella Papi”.
“Ah, Donatella, ciao come stai, cara”.
“Bene... ma deve esserci un...”.
“E come sta Lorenzo? Ora ti passo Carla”.
“Signor Menegatti deve esserci un equivoco. Mio padre si chiama Lorenzo e io sono una giornalista”.
Carla Fracci e il suo fedelissimo marito avevano un’amica fiorentina che si chiamava come me ed era sposata con un signore che aveva lo stesso nome di mio padre. Morale: quella coincidenza mi valse un bell’invito a casa Menegatti-Fracci, a Milano, per una lunga intervista.
La ricordo come sempre vestita di bianco, le mani lunghe ed esili che disegnavano nell’aria, le gambe che teneva in posa anche nella vita, il volto dolce e romantico, ma dentro una donna forte come una tigre. Quello che ha lasciato Carla Fracci, oltre ad innumerevoli balletti di perfezione rara, è la storia di un talento che nasce dal basso, che i mezzi se li è dovuti faticare, l’escalation di una ragazza qualunque, che ha compiuto l’impegno totale che si doveva alle arti. Non inseguendo il successo, i like, l’applauso, il denaro, ma un’icona di umiltà.
Le sue performance erano frutto di lavoro alla sbarra, che ha ripetuto sei-otto ore al giorno, sempre. Mi fece notare un particolare. I critici lodavano le sue “punte”, come stava il collo del piede sulle scarpette di raso. “Lo sa quanto ho lavorato per arcuarlo? Ore e ore, tutti i giorni” mi spiegò mostrandomi l’esercizio. “Le ragazze corrono sul palcoscenico, fanno esercizi complessi, tralasciano le basi. Invece la danza è soprattutto base. Non c’è nessuna grande ballerina, che può evitare di allenarsi come una principiante”.
Raccontai alla signora Fracci di Vladimir Vasiliev, di quella “Giselle” della memoria e la profezia del ballerino. Allora lei, trafitta da una luce incandescente che filtrava dalla grande finestra, mi sussurrò che tutti lodavano la sua “Giselle” con Rudolf Nureyev messa in scena nel 1980. Grandissimo Nureyev con quel volto sagomato, ma la sua esibizione con Vasiliev era anche per lei un altissimo traguardo e un cammeo nel cuore.
Solo che Carla era una signora, una vera signora, e sapendo che Vladimir ballava in coppia con la moglie, la Maksimova, mi fece un cenno di silenzio col dito sulle labbra. E io fino ad oggi non ho mai rivelato questo segreto. Ha ragione Vittorio Sgarbi che ha detto: “Bisogna dedicarle una porzione del Teatro La Scala e dell’Opera di Roma, perché quei templi italiani sono stati Carla Fracci”.
Aggiornato il 28 maggio 2021 alle ore 12:03