Il carcere che ancora non c’è

Il carcere che ancora non c’è, parte seconda. Quante volte l’ho ripetuto incontrando spallucce ambigue e smorfie di malcelato disappunto. Oggi leggo il fior fiore degli operatori di giustizia e chiaramente non sto parlando dei soliti detenuti buontemponi, che ammettono candidamente in galera c’è un sistema al collasso, che si accanisce sui più deboli, che fa perdere alla pena la sua reale funzione, scopo e utilità.

In sintesi, e senza sottolineare i fatti e misfatti che accadono e si ripetono nel silenzio e nell’indifferenza generale, l’apparato penitenziario e il sistema giuridico composto di leggi e norme ben definite, invece di produrre risultati accettabili, non corrisponde alla collettività la giusta richiesta sicurezza, tanto meno ne rispetta il dettato costituzionale. Senza tanti giri di parole chi le leggi le applica e le fa soprattutto rispettare o almeno tenta di farlo con onestà intellettuale, senza raccontare delle panzane o realtà inesistenti per far contento qualcuno, afferma che “non è possibile all’interno di una prigione svolgere un’attività di rieducazione del condannato, e allorché una finalità di risocializzazione si verificasse, ciò accade per fatti propri”.

Dunque, non perché il sistema di ordinamenti e umana condivisione di intenti rieducativi crea le condizioni perché ciò accada. A ben vedere, questa sorta di inquietante eredità è il risultato di una mia convinzione profonda, che da molti anni sostengo e porto avanti naturalmente da solitudinarizzato: è possibile diventare persone migliori nonostante il carcere. Il problema di fondo, però, rimane e si moltiplica dentro una cella abitata da numeri, cose, oggettistica da scartare. Ciò significa disegnare in maniera non sindacabile l’eccezione che conferma la regola di un vero e proprio fallimento. Quando si sente parlare di una pena vendicativa, di una pena dis-umana, di una pena doppia rispetto a quella erogata dal giudice naturale, c’è come un’impossibilità forzata a misura a comprendere la drammaticità di asserzioni come queste.

Infatti, come dice un autorevole giudice: ciò starebbe a significare una pena e una riparazione del tutto incompatibile con la nostra Costituzione, ma soprattutto con la nostra coscienza. Forse hanno ragione coloro che sostengono che “più che di legalità occorrerebbe parlare di responsabilità” per ridurre il tasso di recidiva inaccettabile. E perché violenza e illegalità non hanno mai creato le condizioni minime necessarie per favorire il reinserimento del detenuto.

Aggiornato il 25 maggio 2021 alle ore 12:43