
Mercatino antiquario, mobiletto così così. Misuro, è giusto, tratto il prezzo, pago. Sto per andarmene quando il venditore mi rassicura: ha passato la vernice trasparente, per questo mese è a posto. A scoppio ritardato mi giro e gli chiedo che vuol dire “per questo mese”. Mi spiega molte cose su legni, pennelli: conclude che ogni trenta giorni devo verniciarlo tutto. Così, rapidamente, senza eccessive rifiniture. Oso ipotizzare una futura dimenticanza e lui scuote la testa, come si fa con i ragazzi scapestrati che mandano in malora legni quasi d’epoca.
Torno a casa con sensi di colpa preventivi, sapendo in anticipo che mai un pennello avrebbe sfiorato quel mobile. La vita di tutti noi trascorre fra tappezzieri che raccomandano istituti di bellezza per le poltrone in pelle e manuali di elettrodomestici che ci impegnano a tempo pieno, dimostrando che siamo noi i loro domestici. Automobili, moto e biciclette, da curare come pupi, fino a inutili gadget per ridere una sola volta con gli amici, ma con programmi di manutenzione secolare.
Ognuno ha il suo mestiere, la sua vita, le sue manie. Con cui istintivamente cerca di contagiare il prossimo, minacciando velatamente piccole tragedie in caso di negligenze reiterate. E se pensiamo a quanti sono i solerti del terrorismo manutentivo concluderemo che ventiquattr’ore al giorno sono poche per garantire salute e benessere ai nostri oggetti, soprattutto a quelli inutili. E mentre compio un plateale atto di ribellione, lasciando opacizzare una cornicetta insulsa come la foto che contiene, mi accorgo che uno dei miei cento orologi ha le pile scariche. Rozzamente lo apro, rozzamente tolgo la linguetta di metallo, inqualificabilmente introduco una pastiglia cinese al posto della nobile batteria che aveva esalato l’ultimo milliwatt. Richiudo, lo guardo con spavalderia al limite della materia penale: non dà segni di vita.
La pila non è l’unico problema, lo porto a chi me l’aveva venduto, uno con la faccia da svizzero, come tutti gli orologiai professionali che vivono su un bilanciere, in un mondo dove tutto deve essere perfetto, e ignorano che nessuno legge più l’ora sul quadrante, ma sul telefono, oppure la chiedono ad Alexa. L’orologio è diventato una specie di onor del polso, e indossarne uno rotto è solo sciatteria. Il ghigno professionale fa già sentire in colpa prima del processo. La belva o’clock non trattiene il suo sdegno, che sciorina con gridolini di soddisfazione dal suo laboratorietto, attiguo al negozio di vendita.
“Con quale cacciavite l’ha aperto?” chiedeva urlando con sordina elvetica. E poi scopriva errori, tanti, era felicissimo. “La pellicola trasparente sotto la pila? Lo so, è minuscola, non la vede nessuno. E poi non fa contatto. Ha cambiato lei le pile, vero?”. Non so se, confessando, otterrò uno sconto di pena, ma la marca quasi maoista della batteria è la prova inconfutabile di quanto io sia uno straccione. Il cacciavite con cui l’avevo aperto è dritto, non di marca, manca quell’angolino che mi mostra tre volte con un sadismo che fa impallidire la Gestapo. A questo punto, la valanga: filtro per il barometro, l’ha cambiato? La placca, perché l’ha curvata? La guarnizione del coperchio va cambiata ogni anno, l’ha sostituita? Guardo il mio orologio con cinturino arancio. Aspetto che reclini il capino per l’ultima volta, quando l’Indiana Jones delle lancette prevede mezz’ora per tentare un bocca a bocca con questa prognosi riservatissima. Io non posso, non devo assistere, mi chiamerà il Guglielmo Tell dei Tissot.
Esco dal negozio, passeggio nervosamente lungo la strada le cui principali attrazioni sono negozi di pannoloni per bambini. Lui non telefona, non resisto, torno. Dopo un quarto d’ora riappare come un chirurgo che ha salvato un morto. Mi fa il riepilogo dei miei errori da non ripetere, mi ricorda che ho un anno di tregua, poi il tagliando per questo oggetto nobile e sofisticato mi attende, implacabile. Ringrazio, pago l’intervento quanto mi sarebbe costato un orologio nuovo di marca decente.
Esco. O adesso o mai più: uno scatto, e il mio bellissimo gioiello di marca, che infilo repentinamente al polso di un simpatico barbone, ha ora un anno di vita, perché lui è un uomo libero, che non dipende dagli orologiai. Perciò, vi prego, non accusatelo, non ha rubato nulla, anzi, ha donato. A me, la libertà.
Aggiornato il 24 maggio 2021 alle ore 11:24