
È sotto gli occhi di tutti come l’impatto della pandemia stia mostrando oggi i propri risvolti psicologici e sociali e chiedere di conoscere e considerare gli psicologi nella loro specificità è un passaggio imprescindibile per chi governa la Res publica ed opera per il bene comune, non è qualcosa volto al bene di una singola professione, ma è un atto di interesse collettivo.
A oltre trent’anni dal riconoscimento formale della professione di psicologo in Italia è stato soltanto con la Legge 3/2018 che essa è stata riconosciuta fra quelle deputate alla tutela del fondamentale diritto alla Salute. Tale passaggio ha visto anche il riconoscimento formale dello status di professione sanitaria, poiché una grossa parte delle attività proprie e riservate agli psicologi sono riconoscibili ed ascrivibili fra quelle sanitarie. Ma questi cambiamenti, così come il valore e l’importanza degli psicologi, non sono ancora oggi sedimentati nel pensiero comune, né tantomeno in quello dei vertici dello Stato.
In Parlamento è stata deposita la proposta di legge Bellucci ed altri )“Disposizioni per l’accesso ai servizi di psicoterapia e disciplina delle convenzioni con il Servizio sanitario nazionale”) che intende assicurare a tutti i cittadini il diritto alla salute psicologica, consentendo loro l’accesso alla Psicoterapia mediante i servizi di prevenzione e di cura pubblici o privati convenzionati.
Bisogna interrogarsi sulla più ampia visione dei diritti civili e sociali da garantire in concreto, su quell’insieme di diritti e doveri che concorrono alla realizzazione della persona così come sancito dall’articolo 2 della Costituzione, che custodiscono e promuovono la sua dignità, fra i quali certamente il diritto alla salute costituisce l’espressione fondamentale. Una prospettiva che rinviene le sue radici nella Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità ratificata dal nostro Paese con la legge numero 18 del 2009, che annovera all’articolo 3 tra i suoi principi “il rispetto per la dignità intrinseca, l’autonomia individuale, compresa la libertà di compiere le proprie scelte, e l’indipendenza delle persone” e “la piena ed effettiva partecipazione e inclusione nella società”.
Ridare dignità alle persone con disturbi mentali significa non solo riconoscere diritti prima negati, ma soprattutto aiutare il soggetto a recuperare le capacità necessarie per esprimere la propria personalità sia sul piano identitario che su quello relazionale. Un diritto a cui far corrispondere un dovere collettivo, secondo la direttrice egualitaria e solidaristica degli articoli 2 e 3 della Costituzione, volto ad assicurare la qualità della vita delle persone con disturbi mentali e la partecipazione alla vita sociale, ben oltre il semplice “reinserimento” sociale.
Non possiamo dimenticare al contempo come il contesto sociale rappresenti un fattore di rischio per i disturbi mentali. Crescente è l’emersione di gruppi sociali vulnerabili, dalle persone che versano in stato di povertà ai malati cronici, dai giovani alle vittime di discriminazioni. A sua volta i disturbi mentali sono molte volte causa di disagio ed esclusione sociale. L’orizzonte che si presenta è quello di spostare l’attenzione da una preoccupazione terapeutica e da un approccio sanitario (pur sempre irrinunciabili) ad un coinvolgimento sociale. La dignità delle persone passa non solo attraverso la garanzia di prestazioni necessarie per soddisfare i loro bisogni essenziali e per promuovere le loro capacità, ma anche (e soprattutto) dall’integrazione sociale (ad esempio attraverso l’esperienza lavorativa). Forse è proprio su questo versante che registriamo i più significativi ritardi.
Più in generale, la sfida da percorrere è quella di alimentare condizioni sociali capaci di impedire o almeno limitare la diffusione del disagio psichico. La promozione della qualità della convivenza e sul piano giuridico della cittadinanza (dei diritti effettivamente goduti) può produrre una nuova salute mentale “diffusa”. Ciò dovrebbe spingere a ripensare le soluzioni organizzative sino ad oggi adottate nell’ambito del Sistema sanitario nazionale ed in particolare il modello dipartimentale.
Aggiornato il 18 maggio 2021 alle ore 12:20