
A poche ore dall’inizio del confronto parlamentare sul Pnrr-Piano nazionale di ripresa e resilienza, il Centro studi Rosario Livatino aggiorna il proprio documento di febbraio nella parte relativa alla Giustizia, tornando a sottolineare la persistenza di gravi lacune derivanti dal mancato adeguamento degli organici dei magistrati e del personale di cancelleria. Il previsto cospicuo finanziamento dell’“ufficio per il processo”, oltre che garantire uno spreco di risorse, rischia di stravolgere la stessa funzione del giudice, mentre la digitalizzazione resta un miraggio se non è orientata dove serve realmente.
Finalmente risorse per la giustizia, non accompagnate tuttavia da una visione strategica. Già la bozza di Piano Nazionale di utilizzo delle risorse provenienti dal Recovery Fund europeo predisposta dal Governo Conte II e circolarizzata il 12 gennaio prevedeva lo stanziamento di somme per il rafforzamento del sistema della giustizia in Italia. Come allora evidenziato dal Centro Studi Livatino più che sull’individuazione dei criteri di utilizzo efficiente di tali somme quella bozza si concentrava sul tracciare i contenuti di merito di possibili riforme tecniche processuali e dell’ordinamento giudiziario che poco avevano a che fare con le finalità specifiche del Piano: si trattava, in verità, di riforme spesso a costo zero, se non preordinate a un risparmio di spesa pubblica. Identica miopia di visione, e incongruenza tra finalità del Piano di Ripresa, da una parte, e misure proposte, dall’altra parte, si riscontra nel documento conclusivo presentato dal Governo Draghi il 23 aprile 2021, sul quale nelle prossime ore si concentrerà l’esame del Parlamento.
La circostanza che l’Italia, negli ultimi anni, si sia sempre trovata a dover risparmiare spesa pubblica, con manovre finanziarie di breve respiro, sembra aver fatto venir meno la capacità di visione su come spendere in modo ottimale risorse importanti. Nonostante la pletora di consulenze per l’ottimizzazione della bozza di Pnrr, non sembra che la nuova bozza abbia dato vita a un cambio di passo per il comparto giustizia. Alla cultura del risparmio nelle spese correnti, faticosamente raggiunta in questi anni, che ha condotto al fondamentale risultato dell’avanzo primario, non è stata affiancata – si parla sempre del capitolo “giustizia” – quella visione di spesa pubblica efficiente da cui dipenderà molto della futura capacità del Paese di restare, o rimettersi, al passo delle Nazioni più avanzate. Non sono soltanto le condizioni europee a esigere che le somme del Recovery siano sfruttate per investimenti pubblici di rilevanza sistematica ampia, anziché per spese correnti e “mancette”: ciò è richiesto anzitutto dai principi costituzionali di razionalità, efficienza e buon andamento dell’amministrazione.
Le riforme necessarie alla giustizia in Italia. Il settore giustizia è un capitolo fondamentale del sistema Italia, perché attiene ai diritti fondamentali dei cittadini e incide sulla competitività del Paese: l’incertezza e l’inefficienza del sistema giudiziario rappresentano, infatti, fra le principali ragioni che scoraggiano gli investimenti privati – anche stranieri – in Italia, e el contempo un fattore di freno alla crescita economica (cf., tra i molti, Ufficio Parlamentare di Bilancio, L’efficienza della giustizia civile e la performance economica, 2016, par. 2; Banca Mondiale, Doing business. Enforcing contracts. How judicial efficiency supports freedom of contract, 2015).
Per affrontare la crisi della giustizia in Italia occorrono riforme strutturali, riforme a costo zero e riforme da finanziare:
Le riforme strutturali sono quelle che attengono all’ordinamento della giustizia nel suo complesso: si tratta di quelle che vanno al cuore del potere giudiziario con il fine di minimizzare il rischio che si ripetano vicende simili agli scandali degli ultimi anni, affrontate dal nostro Centro Studi, fra l’altro, col volume In vece del popolo italiano.
Le riforme a costo zero sono, in generale, quelle tecniche e processuali, attinenti ai riti e agli adempimenti processuali, cui di solito ci si riferisce quando si parla di “riforma della giustizia”.
Le riforme da finanziare sono, invece, quelle che richiedono la dotazione dell’apparato della giustizia di mezzi adeguati per fare effettivamente funzionare il sistema processuale delineato dai codici.
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza doveva concentrarsi su quest’ultimo capitolo, le riforme da finanziarie, e invece ha parlato pressoché esclusivamente degli altri due. Non si è compreso, in altre parole, che nessuna riforma tecnico-processuale, per quanto ben congegnata, funziona se la sua attuazione non viene demandata a un apparato di uomini e mezzi adeguato. Non si è compreso, quindi, che ciò che era richiesto in questa fase era una riflessione sui mezzi e sugli strumenti di cui sono dotati i Tribunali in Italia, non il tracciamento di un programma più o meno vago di riforme processuali e dell’ordinamento processuale. Non si trattava di impostare, in questa sede, una riforma della giustizia e dei riti processuali: si trattava di individuare gli aspetti del sistema giustizia che richiedono un rafforzamento sul piano degli investimenti finanziari; manca invece totalmente il recepimento nel Piano di una ricerca in tal senso.
Non si è compreso, in sintesi, che l’Unione europea non presta risorse per tracciare una riforma del processo e dell’ordinamento giudiziario in Italia, materie che d’altronde esulano dalle sue competenze secondo i Trattati, ma per dotare i tribunali di risorse adeguate a rendere giustizia in modo efficiente e in tempi rapidi. In questa prospettiva, per quanto riguarda il sistema giustizia il piano di ripresa economica diffuso il 23 aprile non corregge il tiro rispetto alla bozza elaborata dal precedente Governo e offre soluzioni non adeguate, né sul piano delle risorse, né sul piano dei contenuti.
Anzitutto, sotto il profilo economico lo stanziamento alla riforma della macchina della giustizia è limitato a 2,3 miliardi di euro, destinato sostanzialmente alla creazione degli “uffici per il processo” (pagina 96: “Investimento in capitale umano per rafforzare l’Ufficio del Processo e superare le disparità tra tribunali”). Se vengono confermate, le cifre complessive a disposizione dell’Italia nel piano europeo per la ripresa, quelle destinate alla giustizia sarebbero appena l’1 per cento, sebbene il peso dell’inefficienza della giustizia nella crisi del Paese abbia un rilievo di gran lunga superiore (si rimanda ai dati illustrati dal presidente dell’Istat Giancarlo Blangiardo La magistratura in Italia in In vece del popolo italiano, cit.).
Essendo evidente l’insufficienza delle risorse stanziate nel piano per il comparto giustizia, risultano estranei al piano investimenti fondamentali, come quelli necessari per rendere l’esecuzione penale più conforme ai principi di tutela della dignità della persona, anche con la costruzione di nuovi istituti penitenziari per affrontare il sovraffollamento carcerario: principi più volte richiamati in sede nazionale e internazionale (ex multis, Corte Cost., n. 279/2013; CGUE, 8 gennaio 2013, Torreggiani c. Italia). La stessa digitalizzazione della giustizia, nel cui ambito si inserisce il programma, dovrebbe esser declinata in maniera opportuna (in particolare, la digitalizzazione delle cancellerie secondo un meccanismo di blockchain) per consentire gli efficientamenti auspicati, in un contesto in cui molti processi sono già integralmente digitalizzati dal lato del giudicante.
Nel merito, e al di là delle lunghe pagine dedicate alla riforma del processo – tema che, tuttavia e come detto, esula dal punto centrale della questione da considerare col piano – quest’ultimo individua nel “fattore tempo” il principale problema dell’amministrazione della giustizia in Italia (pagina 58), ma ritiene che esso vada affrontato essenzialmente con riforme tecnico-processuali, senza prendere atto che la prima causa dei lunghi tempi della giustizia in Italia è la grave carenza degli organici dei tribunali.
A quest’ultimo riguardo, il piano compie due osservazioni. La prima (pagina 60), che già sarebbero in atto sufficienti piani d’intervento per l’aumento del personale magistratuale e di cancelleria. La seconda (pagine 62-64), che i due miliardi di fondi straordinari destinati al settore giustizia dovrebbero essere impiegati non già per assumere giudici, ma per allestire “uffici per il processo”, ossia “un team di personale qualificato di supporto, per agevolarlo nelle attività preparatorie del giudizio”, quali “ricerca, studio, monitoraggio, gestione del ruolo, preparazione di bozze di provvedimenti”. Entrambi gli assunti appaiono inadeguati e mal centrati, come si dirà nei due paragrafi che seguono.
Servono più magistrati. L’organico della magistratura italiana è gravemente sottostimato rispetto alle esigenze della popolazione. Lo dimostrano i dati comparati: la Commissione per l’efficienza della giustizia presso il Consiglio d’Europa – Cepej, nel rapporto European judicial systems. Efficiency and quality of justice, n. 26, 2018, pagina 106, rileva (con dati riferiti all’anno 2016) che in Italia sono presenti circa 10,6 giudici ogni 100.000 abitanti, cioè meno della metà della media europea (21,5) e grandemente inferiore rispetto alla mediana (17,8), comprensiva dei Paesi non membri UE (ad esempio i Paesi dell’ex Urss da una parte, e dall’altra parte i Paesi di common law, ove il ruolo sociale del giudice è ben diverso, come dimostrato dal salario che a essi viene riconosciuto, triplo rispetto alla media, ivi, pagina 123).
Le stesse carenze strutturali riguardano il personale ausiliario, essenzialmente cancellieri e ufficiali giudiziari. Il medesimo rapporto, alla pagina 163, evidenzia come in Italia sono presenti appena 35 ausiliari ogni centomila abitanti, ossia ancora una volta circa la metà rispetto alla media europea (68,7) e comunque molti meno rispetto alla mediana europea (55,2). A fronte di ciò, il Piano a pagina 60 riconosce che “un incremento del numero dei magistrati e degli operatori del settore giustizia costituisce un fattore indispensabile, ancorché non sufficiente, per il conseguimento degli obiettivi”, ma a tal fine non contiene alcuna misura aggiuntiva rispetto a quelle ordinarie, già previste a regime a prescindere dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, idonee a garantire nella sostanza l’annuale ricambio generazionale rispetto ai pensionamenti.
Il Piano conferma che ciò non è sufficiente “per portare il numero di magistrati in Italia in linea con la media dei paesi europei”, ma – incomprensibilmente – non si adopera per affrontare la questione. Esso lascia a desiderare in termini di trasparenza, allorché non dà conto che i numeri di incremento di magistrati che esso prospetta (“600 unità”) corrispondono all’ordinario innesto di nuovi magistrati che avviene in due annualità (circa 300 per anno), e che – come lo stesso Piano ricorda – il concorso bandito nel 2019 non si è tenuto causa Covid: dov’è il di più?
Considerazioni analoghe valgono per i cancellieri, il cui concorso previsto dal 2018 in avanti fa seguito alle esigenze di un ricambio generazionale ormai rimandato da anni e del tutto fisiologico. Manifesta appare, dunque, l’inadeguatezza del Piano rispetto alla prima esigenza che avrebbe dovuto essere soddisfatta per risolvere il problema del “fattore tempo” nei processi italiani.
Non serve l’“ufficio per il processo”. Sotto altro profilo, chi abbia pratica della prassi giudiziaria ha ben chiaro che ciò che serve ai giudici non è tanto un ufficio di studiosi o tirocinanti cui far svolgere ricerche giurisprudenziali, o cui affidare un primo esame dei fascicoli: è potersi concentrare personalmente su tali attività con serietà e serenità, in modo tale da emettere decisioni destinate a essere confermate negli eventuali successivi gradi di giudizio (un criterio di resistenza purtroppo attualmente estraneo ai criteri di valutazione dei magistrati). Il giudice ordinario deve trattare molte questioni e confrontare costantemente i fatti con il diritto; non deve concentrarsi su poche questioni della massima importanza giuridica, spesso scisse rispetto alla ricostruzione fattuale o processuale, come avviene ad esempio per i giudici costituzionali o delle corti sovranazionali, per i quali l’ufficio processuale concettualmente nasce e si manifesta come strumento appropriato.
Dietro alla scelta di non aumentare il numero dei magistrati, ma di potenziare l’ufficio per il processo, sta una surrettizia ma profonda “revisione” del ruolo del giudice che non può essere condivisa. Il giudice comune non dovrebbe trasformarsi nel supervisore dell’attività di giovani collaboratori, cui delegare tronconi della propria attività – a un componente dello staff l’istruttoria, a un altro la ricerca giuridica, a un altro ancora la scrittura della bozza del provvedimento – per poi compiere la sintesi finale. Nell’attività del giudice la riconduzione in capo a una stessa persona di tutte le fasi dell’attività decisoria - esame del fatto, applicazione del diritto al fatto, motivazione dei provvedimenti - è fondamentale per la giustizia sostanziale delle decisioni, e costituisce la base del proficuo confronto con i colleghi nei casi in cui l’ordinamento richieda la decisione collegiale.
Ciò appare evidente per la giustizia penale, dove il principio dell’immediatezza assume rilievo centrale, ma lo è nondimeno per la giustizia civile. Compartimentalizzare le varie attività per affidarle a diverse persone, e riservare al giudice un ruolo di sintesi equivale a scollegare le fasi del sillogismo giudiziario, a comprometterne logicità e attendibilità, a complicare la percezione complessiva della causa su cui dovrebbe basarsi la pronuncia di giustizia, e in definitiva a mettere in discussione le radici del basilare principio che ispira l’attività giudiziaria, riassunto da secoli dal brocardo “narra mihi factum dabo tibi ius”.
Di ciò lo stesso Piano sembra in qualche misura rendersi conto nella misura in cui concepisce gli “uffici per il processo” come misura straordinaria per far fronte allo smaltimento dell’arretrato, senza garanzia di stabilizzazione dei medesimi (che sarà assicurata soltanto “se possibile”, pagina 63). Ma la crisi della giustizia in Italia è strutturale e non legata a circostanze contingenti, per cui il Piano avrebbe dovuto essere la sede per approntare misure altrettanto strutturali, ciò che invece anche sotto questo – pur inadeguato – profilo non è avvenuto.
Quali investimenti servono davvero alla giustizia. Nella ribadita prospettiva che il Piano non esige di impostare una riforma della giustizia e dei riti processuali, bensì di individuare gli aspetti del sistema giustizia che richiedono un rafforzamento sul piano degli investimenti finanziari, rilanciamo poche elementari proposte per farvi fronte in modo adeguato.
Quanto alla giustizia civile, il Piano si pone in linea di continuità con le molteplici riforme introdotte negli ultimi anni, che tuttavia non sembrano aver sortito per intero gli effetti auspicati, né in punto di efficientamento del sistema, né in punto di miglioramento della percezione del livello di giustizia sostanziale da parte degli utenti. La causa di ciò risiede da un lato in un parziale difetto di fuoco delle azioni intraprese, e dall’altro lato nell’incompiutezza di alcune riforme.
Sotto il primo profilo, gli investimenti su metodi di Alternative Dispute Resolution e di mediazione (pagina 64 del piano) non possono considerarsi sostitutivi rispetto a quelli necessari per rafforzare personale togato e non togato dei tribunali (in particolare, le cancellerie e gli Unep). Per una serie di fattori culturali, e salve materie particolari come i rapporti familiari anche nei momenti di crisi, nei rapporti tra privati gli italiani si manifestano nel complesso poco inclini a rinunciare a ottenere ragione piena di fronte a un giudice, in cambio di una risoluzione rapida ma transattiva della controversia: di ciò il legislatore deve prendere atto, non già forzarsi di forgiare una realtà diversa da quella che desidererebbe gestire.
Non sempre la soluzione più semplice deve per forza considerarsi semplicista o errata: nel caso della giustizia civile italiana, la soluzione di aumentare il numero di giudici e il personale addetto di cancelleria ed esecuzione costituisce, come già detto, l’investimento più importante da svolgere nel comparto coi fondi del Recovery. L’incremento di organico, cui il Piano dovrebbe dar seguito, andrebbe gestito con criteri di razionalità e oculatezza: dovrebbe essere congruamente incrementato il numero di nuovi immessi in ruolo per ciascun anno o frazione di anno (non già semplicemente recuperare il concorso saltato a causa della pandemia, peraltro con modalità concorsuali assai discutibili), al fine di rendere adeguato l’organico nel giro di un rapido lasso di tempo. In alternativa, un eventuale maxiconcorso straordinario andrebbe organizzato in maniera tale da non sacrificare le esigenze dell’indispensabile selezione per merito.
Per i nuovi concorsi andrebbe prevista una corsia preferenziale riguardante gli attuali giudici onorari, nella prospettiva del progressivo assorbimento di tale figura nella magistratura ordinaria, che appare in certa misura imposto anche dalla recente sentenza numero 41/2021 della Corte Costituzionale, sostanzialmente ignorata dal Piano. Non è dignitoso che, in numero così esteso, professionisti siano impiegati quasi a tempo pieno nell’amministrazione della giustizia, e siano nel contempo lasciati privi di certezze lavorative, nonostante l’esperienza. Si può scegliere fra quote loro riservate nell’ambito di concorsi ordinari, ovvero – e in modo più netto – un concorso per titoli loro dedicato, da svolgere rapidamente: quel che è ineludibile è lo stanziamento di una parte delle risorse per il loro inserimento in ruolo. Chi obietti sulla adeguatezza dei profili per un verso non considera le forti competenze accumulate da non pochi magistrati onorari, per altro verso non spiega perché – nutrendo tali riserve – si permette loro di amministrare larghi settori della giustizia civile e penale.
Quanto alla destinazione degli organici, ferme le necessità degli uffici con maggiore arretrato, una riflessione particolare va svolta per le Corti d’Appello e per la Corte di Cassazione. Si tratta di organi giudiziari preposti alla decisione in gradi di giudizio che, sebbene progressivamente e opportunamente svuotati di contenuti innovativi rispettivamente ai gradi di giudizio che li precedono, continuano a far registrare le inefficienze maggiori, con udienze fissate in molti casi a distanza di anni, che rendono il tempo medio per la decisione di una causa di quasi mille giorni per l’appello e di quasi 1.500 giorni per la cassazione (Commissione per l’efficienza della giustizia presso il Consiglio d’Europa – Cepej, European judicial systems. Efficiency and quality of justice, numero 26, 2018, pagina 242). La ragione è che di fronte alle Corti d’Appello si concentrano i contenziosi provenienti da tutti i tribunali del distretto, a fronte di un numero di giudici inferiore rispetto a quelli di primo grado. Se il principio per cui l’organico delle Corti d’Appello sia inferiore a quello dei giudici di primo grado è corretto, posto che il giudizio d’appello dovrebbe di regola risolversi in una sola udienza, diversamente da quanto avviene per il giudizio di primo grado, non altrettanto lo sono le modalità con cui esso è attuato nel nostro ordinamento. Sempre il rapporto European judicial systems. Efficiency and quality of justice, n. 26, 2018, pagina 112, infatti, rileva che la percentuale dei giudici destinati alle Corti d’Appello in Italia (18 per cento) è inferiore rispetto alla media europea (22 per cento).
Inutile appare, in questa prospettiva, il potenziamento del filtro d’inammissibilità dell’appello e la possibilità di trattazioni monocratiche (pagina 66 del piano): come noto a chi abbia dimestichezza con la prassi giudiziaria, la decisione sull’ammissibilità dell’impugnazione richiede comunque, al di là di casi limiti, la trattazione della causa, e il carattere collegiale dell’udienza non incide sul fatto che in ogni caso la parte essenziale degli incombenti grava anche attualmente su un singolo giudice, e non sull’intero collegio. Dovrebbe quindi essere urgentemente rafforzato l’organico di ruolo in queste Corti, introducendo meccanismi di verifica della produttività, con una parte delle somme del Recovery Fund destinate a queste finalità.
Uno strutturale e robusto incremento degli organici dovrebbe riguardare anche le sezioni specializzate svolgenti funzioni di tribunale per le imprese. Andrebbe rivista la scelta di collocarle esclusivamente nel Tribunale capoluogo del distretto di Corte d’Appello, e comunque dovrebbero essere dotate di un personale giudicante e ausiliario sufficiente a far sì che le cause assegnate siano trattate e decise molto più rapidamente di quanto non avvenga attualmente. Non vi è bisogno di osservare che le funzioni da esse svolte attengono al cuore della vita economica del Paese e, pertanto, hanno una incidenza diretta sulla competitività del sistema.
Sotto altro profilo, le riforme finora riguardanti la digitalizzazione dei processi vanno completate, non soltanto con l’informatizzazione del giudizio di cassazione, in corso di realizzazione, e con quella del giudizio di fronte ai giudici di pace, ma anche con la completa digitalizzazione delle cancellerie e degli Unep. L’esperienza del lockdown è stata emblematica in proposito: in molti casi, i giudici collegati da remoto erano in condizione di svolgere le attività decisionali, mentre non avevano i necessari supporti di segretaria per il caricamento o lo scaricamento degli atti dai fascicoli telematici da parte del personale in smart working.
Quanto ai giudizi di fronte ai giudici di pace, fermo restando quanto sopra osservato in merito all’opportunità di procedere a un progressivo assorbimento dei giudici onorari nell’ambito della magistratura togata, l’insufficiente digitalizzazione attualmente in essere e la conseguente minor efficienza della macchina della giustizia incide su ambiti che, seppure minori da un punto di vista degli importi, sono rilevantissimi per numero e per interesse sociale. Per cui dovrebbero essere raccolte le sollecitazioni (cfr., di recente, la lettera rivolta al Ministero della Giustizia dall’Ordine degli Avvocati di Milano) a completare la digitalizzazione.
La digitalizzazione delle cancellerie giudiziarie dovrebbe, inoltre, essere revisionata in modo da consentire un meccanismo di blockchain, in modo che siano direttamente i difensori a poter inserire gli atti sul sistema informatico, senza richiedere che l’immissione dei dati sia effettuata da un cancellerie mediante il farraginoso sistema della cosiddetta “apertura delle buste”. Ciò risparmierebbe molto tempo che i cancellieri potrebbero dedicare ad attività non automatizzabili, con la massimizzazione dell’efficienza delle risorse già disponibili.
Quanto all’esecuzione forzata, si registra positivamente che il Piano ha recepito (pagina 67) la proposta, avanzata dal Centro Studi in sede di esame della precedente bozza, di semplificare le modalità di notifica dei pignoramenti, specialmente immobiliari. Sotto altro profilo, si rileva invece che la persistente volontà di non incrementare l’organico magistratuale impedisce di risolvere problemi strutturali dei tempi della fase d’esecuzione, come in particolare quello della fissazione dell’udienza per l’autorizzazione alla vendita ex articola 569 codice procedura civile, che non appare oggettivamente suscettibile di delega a soggetti esterni ai giudici dell’esecuzione. A seguito della notifica dei pignoramenti, si crea un vero “collo di bottiglia” nel momento in cui è richiesto l’intervento di un magistrato per dare l’ok all’espropriazione forzata (e permettere, così, a chi ha ragione di ottenere effettiva soddisfazione): tale collo di bottiglia non può che essere risolto aumentando il numero dei magistrati dedicato a tale fase processuale.
Sulla giustizia penale valgono considerazioni analoghe a quelle sopra esposte con riferimento alla improcrastinabile necessità di aumentare il numero dei giudici togati e del personale di cancelleria e segreteria, con la soluzione prospettata, quanto ai primi, dell’assorbimento graduale dei magistrati onorari, tenendo conto che nel settore, oltre ai giudicanti, opera anche un congruo numero di vice procuratori onorari. Per quanto accurate, le riforme dei riti non risolvono i problemi della giustizia penale se mancano giudici, uomini e infrastrutture per attuarli in modo efficiente. Sotto il profilo dell’adeguatezza dell’organico, la stessa depenalizzazione, pur necessaria per certe fattispecie, rischia in buona parte di traslare il problema dalla giustizia penale a uffici amministrativi spesso inadeguati per risorse umane e strutturali (a cominciare dalle prefetture), e alla giustizia civile competente alle impugnazioni delle ordinanze ingiunzioni che irrogano le sanzioni amministrative.
Il rafforzamento degli organici giudicanti è la misura strutturalmente necessaria per affrontare in modo efficace il lato patologico della prescrizione dei reati: quello dei reati che sono individuati tempestivamente ma che rischiano di prescriversi per le lungaggini processuali. Questo, dunque, non estemporanee riforme della prescrizione dei reati come quelle di recente approvazione, è il vero intervento che merita di essere realizzato per contemperare il diritto dell’imputato a non essere indefinitamente sottoposto all’esercizio dell’azione penale, e l’esigenza di effettiva repressione del crimine. Il rafforzamento degli organici è l’unica via possibile per rendere tendenzialmente effettivo l’obbligo di esercizio dell’azione penale, sul quale pure meriterebbero di esser svolte riflessioni più ampie, che tuttavia non attengono al mero impiego di risorse finanziarie (su cui rinviamo ancora a La magistratura in Italia, in In vece del popolo italiano, pagina 83). I dati dimostrano, del resto, non solo che il numero dei procuratori in Italia è sottostimato rispetto alla media europea (il rapporto European judicial systems. Efficiency and quality of justice, numero 26, 2018, pagina 131, rileva per l’Italia 3,5 procuratori ogni centomila abitanti a fronte di una media di 11,7), ma anche che ciò si traduce in un eccesso di casi affidati a ciascuno (1.737 a fronte della media europea di 578), dato peggiore in Europa se si eccettua quello della Francia (ove però non vige l’obbligo di esercizio dell’azione penale, secondo il principio della opportunité des poursuites, di cui all’articolo 40-1 del Code de Procédure Pénale).
Sotto altro profilo, molto vi è da fare in ambito penale per l’informatizzazione degli atti processuali aventi forma scritta: in questo comparto la digitalizzazione versa in una fase ben più arretrata rispetto a quella del processo civile. A essa dovranno necessariamente destinarsi importanti risorse, poiché da essa dipende la speditezza di una serie di attività processuali e l’ottimizzazione dell’impiego delle risorse di personale dei Tribunali. Non si comprendono quindi le ragioni per cui il piano prenda in esame l’aspetto (pag. 70), ma nel momento dell’individuazione della destinazione delle risorse non dedichi a ciò alcuno specifico stanziamento (pagina 96), se non un rinvio generico ai fondi stanziati per la digitalizzazione della Pubblica amministrazione in generale (pagina 105).
Ciò vale sia per l’indilazionabile miglioramento dei sistemi informatici del ministero della Giustizia, a cominciare dal Dgsia, la cui funzionalità spesso lascia a desiderare, sia per la virtuosa sinergia da introdurre fra modalità telematiche, più diffuse e omogenee, di trasmissione degli atti e norme processuali che le rendano possibili: non è più accettabile, per fare un esempio fra i tanti, – e neanche l’emergenza della pandemia ha fatto superare certi arcaismi – che il ricorso per cassazione debba ancora essere depositato pro manibus e non sia inoltrabile via pec; né è accettabile che l’informatica, ove introdotta, faccia perdere tempo con le difficoltà di consultazione degli atti, a causa del cattivo funzionamento dei sistemi.
Si è già fatto cenno dapprincipio alla necessità di destinare somme rilevanti alla fase dell’esecuzione della pena al fine di renderla più conforme ai principi di tutela della dignità della persona, attraverso l’acquisto di braccialetti elettronici, regole di trasparenza nella loro acquisizione e nella loro operabilità, visto che spesso ci sono e non sono utilizzati, l’incremento di percorsi efficaci di rieducazione e reinserimento al lavoro, e la costruzione di nuovi istituti penitenziari.
Non investire parte delle somme stanziate per il comparto giustizia a queste finalità farebbe perdere un’occasione fondamentale per porre l’esecuzione penale italiana al passo con quanto richiesto per coniugare l’espiazione della pena coi diritti dei detenuti. In questa prospettiva, l’occasione del Piano di ripresa dovrebbe essere utilizzata anche e specificamente per realizzare appieno quella funzione rieducativa della pena da associare allo svolgimento di attività lavorativa durante l’esecuzione della pena, anche carceraria.
Non va dimenticato, infatti, che la nostra Repubblica è espressamente “fondata sul lavoro”, come precisa il primo articolo della Costituzione. Da ciò discende che il momento lavorativo deve considerarsi una dimensione fondamentale per la realizzazione dei valori della Repubblica e dotata di una intrinseca valenza educativa ai valori civici. Per cui, porre i condannati in condizione di svolgere un’attività non è strumento necessario soltanto per consentire a essi di saldare i debiti di giustizia e i danni da reato, ma anche e ancor prima per attuare la funzione rieducativa della pena (articolo 27 della Costituzione), che difficilmente si realizza da sé per il sol fatto di scontare una pena senza che essa richieda l’impegno in un’attività onesta e costruttiva. Lo svolgimento di attività lavorativa da parte dei condannati e, in particolare, dei detenuti in modo tale da garantire i loro diritti quali lavoratori e contemporaneamente le esigenze di sicurezza pubblica richiede chiaramente di sostenere nell’immediato degli investimenti organizzativi e l’occasione che si presenta nella presente congiuntura non può essere persa.
Tutto ciò non esclude la prospettiva di riforme strutturali della giustizia penale, ma mira intanto al più efficiente utilizzo di una quantità di risorse quali mai il sistema giustizia nel suo insieme ha avuto a disposizione.
Aggiornato il 27 aprile 2021 alle ore 10:49