“Prendete per esempio l’Ectogenesi. Pfitzner e Kawaguki ne avevano elaborato la teoria completa. Ma credete che i Governi ne volessero sapere? No. C’era una cosa chiamata Cristianesimo. Le donne furono costrette a continuare ad essere vivipare”: così Aldous Huxley, nel suo “Ritorno al mondo nuovo”, ha dipinto la “condanna naturale” delle donne costrette dalla natura a partorire, condanna da cui la cultura, tramite il progresso tecnico, potrebbe consentire di evadere per sempre se non fosse per la presenza della morale cristiana.
L’utero artificiale, tuttavia, è oramai da tempo fuoriuscito dai luoghi letterari ed è diventato realtà, e i problemi che da esso scaturiscono prescindono da una visione teologica o cristiana della vita, riguardando alla luce della ragione le conseguenze di cui esso è fonte.
La notizia, rispetto alla legalizzazione dell’eutanasia in Spagna o alla ripresa della campagna vaccinale con il prodotto di Astrazeneca, è passata in secondo piano nella maggior parte delle testate informative soprattutto nazionali, ma il New York Times ha riferito che un team di ricerca israeliano ha compiuto – dopo anni di analoghe sperimentazioni nel resto del mondo – il primo vero passo verso il perfezionamento dell’utero artificiale riuscendo a far crescere circa un migliaio di embrioni di topo rimuovendoli dall’utero materno e facendoli sviluppare all’interno dell’utero artificiale fino a circa metà della loro gestazione, precisando che nell’uomo – ad un pari stadio di sviluppo – si parlerebbe già di feto.
Se una tale tecnologia riproduttiva fosse messa a punto in breve tempo e applicata agli esseri umani, le conseguenze di carattere antropologico sarebbero devastanti così che occorre interrogarsi per tempo sui profili etici e giuridici di un tale strumento prima che possa sfuggire al controllo per fini di profitto, come già accaduto in passato con altri apporti della conoscenza scientifica.
L’utero artificiale troverà la sua legittimazione in almeno tre applicazioni: salvare la vita dei grandi prematuri, cioè dei feti che nascono ampiamente pre-termine prima delle 21-22 settimane di gestazione; affrancare le donne dalla schiavitù della maternità surrogata; consentire a tutti di avere figli senza affrontare i rischi della gravidanza. A fronte di questi vantaggi, tuttavia, vi sono dei profili “oscuri” che devono essere considerati poiché nessuna tecnologia è priva di ambiguità e aspetti o conseguenze negative.
In primo luogo: la diffusione dell’utero artificiale rischia di oggettivizzare l’essere umano, specialmente i nascituri che diventerebbero oggetti del contratto di “gestazione artificiale”, contravvenendo a quel principio tutto illuministico sacralizzato da Kant secondo il quale l’essere umano deve essere considerato sempre un fine e mai un mezzo.
In secondo luogo: viene messa in discussione – probabilmente in un modo così definitivo che mai si era presentato nella storia – la facoltà della donna di interrompere la gravidanza tramite l’aborto. Se l’aborto, infatti, fino ad oggi è stato rappresentato come momento di espressione della libertà della donna e del suo controllo sul proprio corpo, l’avvento dell’utero artificiale scardinerebbe in modo definitivo una tale legittimazione dell’aborto, poiché la gestazione sarebbe compiuta da una macchina e non più dalla donna; reclamare un eventuale diritto all’aborto in presenza dell’utero artificiale significherebbe reclamare il diritto non sul proprio corpo, ma sulla soppressione sic et simpliciter di una vita distinta e distante rispetto alla donna che eventualmente intendesse “abortire”. La donna, insomma, sarebbe spodestata da quella libertà decisionale sulla vita e sulla morte che negli ultimi decenni ha costituito la punta di diamante delle lotte femministe.
È anche pur vero, tuttavia, che proprio l’utero artificiale consentirebbe di far continuare le vite di quei feti eventualmente volontariamente abortiti, ponendosi, tuttavia, in questo caso ulteriori evidenti problematiche come la sorte del feto, o se la volontà di abortire della donna coincida e si limiti a non voler più condurre la gravidanza, o si estenda fino alla richiesta di soppressione di un feto già espulso e potenzialmente salvabile proprio tramite utero artificiale. Insomma, lo scenario etico e giuridico intorno all’aborto dovrebbe essere radicalmente ripensato.
In terzo luogo: l’avvento e la diffusione dell’utero artificiale consentirebbe di assistere ad un curioso e non poco inquietante fenomeno di rovesciamento antropologico per cui dopo secoli in cui sono state le macchine ad essere prodotte dagli uomini, nel prossimo futuro potrebbero essere gli uomini ad essere prodotti dalle macchine, con chiare ripercussioni in termini di libertà, autonomia, e dignità dell’essere umano.
L’avvento dell’utero artificiale, insomma, impone di cominciare a riflettere sui profili etici e giuridici che esso conduce con se, proprio per evitare che questo nuovo strumento della scienza sia sottratto alla vigilanza della coscienza.
In questo senso, tornano attuali, infatti, le parole di Edgar Morin, secondo il quale “la storia della laicità occidentale ha costruito una fede nel progresso. Il progresso è stato elevato a legge ineluttabile, a necessità storica. Ma si tratta di un’illusione […]. È un mito che la scienza opererà unicamente in direzione del bene generale dell’umanità”.
Aggiornato il 19 marzo 2021 alle ore 13:52