Il cammino incompiuto verso la trasparenza amministrativa

Parole come legalità, trasparenza, accesso e partecipazione agli atti amministrativi hanno trovato solo di recente diritto di cittadinanza nel sistema amministrativo. E il percorso è tutt’altro che compiuto. Nello Statuto albertino del 1848, il re era il solo detentore del potere esecutivo, tanto che poteva dichiarare la guerra “dandone notizia alle Camere”. In un simile contesto storico ingerirsi negli affari della Pubblica amministrazione, che risaliva fino alla persona del sovrano, era una pretesa giuridicamente insostenibile e addirittura blasfema, considerata l’investitura divina del re. Ovviamente su tutto gravava un plumbeo segreto d’ufficio, dove dominava l'autorità sui cittadini, definiti dallo Statuto come “amatissimi sudditi”. La Costituzione del 1948 ha frantumato la concentrazione di potere che faceva capo al sovrano e l’ha distribuita fra più soggetti, tuttavia quando si trattò di precisare i rapporti fra Pubblica amministrazione e cittadini, si limitò a osservare, all’articolo 98, che i pubblici impiegati “sono al servizio esclusivo della Nazione”. Invero, si tratta di un concetto ancora vago, in quanto non si rinviene una esplicita legittimazione dei cittadini ad agire. Anche il testo unico sul pubblico impiego del 1957 riaffermava un generale principio di segreto d’ufficio, prevedendo solamente alcune oscure e contradditorie eccezioni.

È negli anni Ottanta che si affaccia sulla scena una ventata innovatrice, resa possibile anche grazie ai lavori della commissione presieduta dal professor Mario Nigro, che sfociò nella legge n 241 del 1990 sulla trasparenza amministrativa e sull’accesso agli atti. Prima del 1990 il nostro ordinamento era dunque ancora dominato dal principio della segretezza dell’azione amministrativa. In tal modo, erano di fatto depotenziati i principi costituzionali formalmente riconosciuti dall’articolo 97 della Carta, cioè quelli di legalità, imparzialità e buon andamento. Oggi il diritto di accesso agli atti delle pubbliche amministrazioni è divenuto un corollario dell’azione amministrativa, al quale nessuna autorità può legittimamente sottrarsi. Esso ha una duplice valenza: da un lato di garanzia del cittadino che intende tutelare situazioni giuridicamente rilevanti, dall’altro di realizzazione dei principi costituzionali. Il principio di “trasparenza”, che racchiude in sé tutto quell’insieme di norme e di comportamenti che regolano il rapporto fra l’agire pubblico e i cittadini, è divenuto parte integrante della nostra cultura giuridica e civile.

Viene tuttavia da chiedersi: parliamo di concetti da considerarsi acquisiti, quasi banali? La risposta non può che essere negativa. I problemi appaiono in tutta la loro evidenza quando ci si cala sul piano concreto. Dal punto di vista sistematico, infatti, il diritto di accesso è parte di un paniere di concetti che comprendono anche il segreto d’ufficio e la riservatezza, mentre talune incertezze operative si mantengono vive anche in seguito a sentenze della Cassazione o prese di posizione del Garante della privacy. Il tutto, poi, senza voler considerare le reticenze spesso ingiustificate che talvolta ancora sopravvivono nella pubblica amministrazione. Nelle intenzioni, gli ostacoli alla realizzazione della cosiddetta “casa di vetro” della Pubblica amministrazione, avrebbero dovuti essere spazzati via con il cosiddetto decreto Brunetta, cioè il decreto legislativo 29 ottobre 2009, 150, il quale ha stabilito che “la trasparenza è intesa come accessibilità totale delle informazioni (quindi non più dei soli documenti amministrativi) allo scopo di favorire forme diffuse di controllo del rispetto dei principi di buon andamento e imparzialità”. Si tratta di una importante affermazione di principio, che però è stata accompagnata da una mancanza, nel senso che non è stato indicato cosa rimane in vigore del sistema precedente.

Questo breve excursus vuole semplicemente evidenziare come sull’argomento siamo ancora lontani dal raggiungere un approdo certo, che offra un quadro definito dei diritti. Suona così ancora di attualità la domanda posta a Sant’Agostino nelle “Confessioni” da un dignitario: “Cosa vogliamo offrire con il nostro servizio?”. Oggi, a quella domanda, che pare essere rivolta agli uomini del nostro tempo, si può rispondere rifacendosi ai valori fondamentali della società. Quell’operosa, vigorosa e onesta società italiana che altro non chiede che istituzioni efficienti e in grado di offrire risposte certe, orientate unicamente al perseguimento dell’interesse pubblico.

Aggiornato il 07 gennaio 2021 alle ore 10:19