Il garantismo peloso di un cattivo maestro

Da quando è deflagrato l’affaire Palamara – ex presidente Anm, leader indiscusso di Unicost ed ora anche ex membro dell’associazione di categoria – Luciano Violante non ha lesinato di far conoscere in più di un’occasione le sue posizioni sulle emergenze salienti del settore giustizia: riforma del Csm e disinvolto uso politico della giustizia penale. L’ex presidente della Camera – il magistrato che arrestò il partigiano liberale Edgardo Sogno con “eccesso di zelo” – Nume tutelare del Pci-Pds-Ds-Pd in fatto di giustizia – ha rilasciato dapprima un’intervista al setttimanale Panorama (Toghe come i peggiori politici, sulla giustizia apriamo una questione morale, n° 24 del 10 giugno 2020) poi a Il Riformista diretto da Piero Sansonetti (“Csm tutto da rifare”, edizione 15.07.20). Quale giurista raffinato e rigoroso, aduso a ricordare non solo i trascorsi in magistratura “in prima linea”, bensì anche la tempestiva decisione di dismettere la toga una tantum – immune, quindi, dal vizietto cui la “riformuccia” Bonafede, con l’inibizione delle cosiddette porte girevoli si ripromette di ovviare – perviene, nell’attuale momento, a parlare e pontificare in veste di “presidente onorario di Italia Decide”, Associazione che si propone di individuare soluzioni per sbloccare il Paese.

Orbene dimentico che le peggior accuse di decisionismo al premier Bettino Craxi vennero mosse dalle fila del Pci & associati, Violante in veste di novello statista (al pari, in verità, all’atteggiamento di altri ex presidenti di Montecitorio, da Fausto Bertinotti a Pier Ferdinando Casini, glissando su Gianfranco Fini e Irene Pivetti) risulta propenso a porre, non in secondo bensì in terzo piano il suo operato “istruttivo” di presidente della Commissione antimafia, durante lo svolgimento intenso del cui mandato non si esimeva da visite presso i capi delle Procure della Repubblica più esposte nella lotta contro la criminalità organizzata. Riteneva, rivestendo tale prestigiosa carica istituzionale e forte della sua esperienza di magistrato, di poter offrire agli “ex colleghi”, sempre all’affannosa ricerca di individuare i capi politici, il “terzo livello” dell’associazione mafiosa (vedasi certamente che Gian Carlo Caselli ingaggiò con Giulio Andreotti, sebbene Giovanni Falcone avesse decisamente smentito, in più circostanze e diverse sedi, l’esistenza di un terzo livello centrale) un contributo decisivo nell’impostazione direzionale delle indagini.

  1. Ebbene Violante, nel primo recente intervento, a parte l’enfatica reminiscenza di berlingueriana memoria (richiamo a questione morale, traslata da ambito politico a quello magistratuale) asserisce che “La magistratura è diventata una componente del sistema di governo, colpa di un complesso di leggi intrusive, approvate dal Parlamento negli ultimi vent’anni, che regolano tutto e sorvegliano tutti. Queste leggi hanno consegnato alla magistratura poteri di carattere politico, ma il potere esige responsabilità e quei magistrati si sono comportati in modo non responsabile”.

In risposta a domanda circa deprecabile comportamento dell’allora vicepresidente Csm Giovanni Legnini (nominato ora per ricompensa, da Conte commissario straordinario governativo per ricostruzione post-sisma, con Dpcm ravvisatane “l’opportunità” addì 14.2.20) il quale, appena appresa esistenza indagine a carico del ministro dell’Interno Matteo Salvini, si precipitò a telefonare al consigliere Luca Palamara per sollecitarlo di attivarsi, con altri sodali, per presentare istanza di “pratica a tutela” del pm procedente di Agrigento, con impegno a subitanea calendarizzazione nonostante il periodo feriale, Violante lapidariamente replica:” Da chi viene eletto il vicepresidente del Csm? Da un patto tra le correnti e tra queste e la componente laica; quindi ogni consiliatura nasce con uno scambio che legittima tutti quelli successivi. Ci sono stati vicepresidenti di primissimo ordine come l’attuale David Ermini (sic!); però il vice del capo dello Stato non è scelto dal capo dello Stato.

Possiamo discutere di questo? La mia idea è che possa esser il presidente della Repubblica a nominare il proprio vice” L’analisi è rimarchevole sia per l’impietosa diagnosi della genesi del disfunzionamento, sia per il costrutto teorico sotteso a proposta soluzione: che la natura elettiva della carica non trasformi il vicepresidente Csm, in soggetto rappresentativo di componente togata e laica dell’organo di autogoverno, ma sia mero metodo di designazione del delegato del capo dello Stato. Infine alla domanda se il capo dello Stato debba intervenire, anche con strumenti di moral suasion per indurre a dimissioni gli altri due consiglieri togati coinvolti nelle chat (Cascini di Area, Mancinetti di Unicost), in modo da poter pervenire allo scioglimento del Csm, sempre l’autorevole intervistato risponde “chiedere l’intervento del capo dello Stato ogni volta c’è un grave problema è segno delle difficoltà del momento. Non è una legge elettorale che può risolvere questi problemi. Il Csm l’ha cambiata cinque o sei volte bisognerebbe guardare ad altro”. La spietata veritiera affermazione – diametralmente opposta a visione dell’autoriforma o “riformetta” Bonafede – che sia velleitario porre freno al fenomeno della degenerazione correntizia del Csm con mutamento del mero sistema elettorale, si scontra con una “chiamata fuori” del presidente della Repubblica di fronte a endemici mali, che però sono emersi in ogni possibile loro virulenza devastante, solo dal maggio 2019: Violante ritiene che l’Inquilino del Colle, di cui il vicepresidente Csm altro non è che un super delegato e che potrebbe essere dal primo direttamente designato, non debba esser scomodato di fronte ad ogni grave o pur gravissimo evento – al limite tra eversione istituzionale e conflitto di attribuzioni costituzionali – come l’episodio inscenato da Legnini; quel vicepresidente che, presago di fine mandato, prima di iniziare la campagna elettorale in natia Terra d’Abruzzo (Giò è un avvocato teatino), precostituisce una “pratica a tutela” contro il rappresentante della maggior forza politica di opposizione al suo partito di provenienza, e di cui era in procinto di tornare da lì a poco ad indossare la casacca, come candidato governatore alla Regione Abruzzo.

Ma più in generale, a chi non difetta la memoria istituzionale, rimane allibito a sentire simili dichiarazioni: è spontaneo chiedersi ove fosse Violante allorquando il Parlamento approvava simili leggi liberticide ed invasive, alteratrici dell’equilibrio costituzionale tra i poteri dello Stato, colpevoli del dilagare senza freni della magistratura prima in ruoli di supplenza e poi di condizionamento sostitutivo del potere politico-parlamentare. Infatti due delle principali leggi di riforma costituzionale che hanno contribuito in maniera rilevante ad intaccare quel residuo esangue di tripartizione dei poteri sopravvissuto alla nefasta stagione di Mani Pulite (25mila avvisi di garanzia; 1.009 inquisiti fra classe politica; 4.525 incarcerati e 11 suicidi eccellenti), portano la firma e sono frutto dell’iniziativa politica del “piccolo Vysinski”, come magistralmente additato il nostro magistrato di scuola torinese da Francesco Cossiga, con riferimento al famigerato procuratore delle purghe staliniste. Prima di citare dette legge costituzionali, riportiamo delle considerazioni del presidente Picconatore, cui riteniamo Violante non abbia prestato attenzione a tempo debito: “Altro elemento di una riforma utopica dovrebbe essere la deburocratizzazione della magistratura, ancora governata da un regime di tipo impiegatizio, alla prussiana, basato sui cosiddetti pubblici concorsi, con forti elementi di cooptazione familiare, di casta e di correnti, proprio dei regimi monarchici assolutisti e dei regimi autoritari o anche solo semiautoritari.

Necessaria è poi la esclusione dall’esercizio di qualunque funzione politica e di sovraordinazione a qualunque titolo su giudici e pubblici ministeri da parte del Csm, organo che secondo la Costituzione è di sola alta amministrazione e quindi da riportare alla sua posizione e natura di organo non costituzionale, bensì di sola rilevanza costituzionale, come stabilito dalla Costituzione, poi violata da legge ordinaria di applicazione. La riforma deve essere incentivata nel rafforzamento massimo delle garanzie di indipendenza dei singoli giudici, che come organi singoli e non come corpo, sono investiti dalla Costituzione della funzione giurisdizionale” (F. Cossiga, Discorso sulla giustizia, Liberilibri, Macerata 2003). Ci riferiamo alla legge costituzionale 29.10.93 n. 3, che riscrivendo il testo dell’articolo 68 della Costituzione, ha riformato incisivamente l’istituto della cosiddetta immunità parlamentare: prima di allora, l’immunità di deputati e senatori era assai più estesa, necessitando l’autorizzazione a procedere anche per l’avvio delle indagini o per procedere al loro arresto, ancorché in forza di condanna irrevocabile.

Sull’onda emotiva della stagione di inchieste giudiziarie di “Mani pulite”, che portarono alla dissolvenza delle formazioni del pentapartito, e pure di iniziative referendarie contro la partitocrazia, si arrivò a frettolosa approvazione della riforma, che ha comportato un vulnus al sistema di checks and balances realizzato dai Padri costituenti, a garanzia dell’effettività della tripartizione dei poteri, che si è disvelato progressivamente più invasivo. L’altra riforma costituzionale, sponsorizzata in prima persona da Violante, ottimo intercettatore degli “umori” poltico-istituzionali del momento e pronto a tradurli in consoni testi legislativi, è quella dell’articolo 79 della Costituzione in tema di amnistia e indulto: legge costituzionale 6 marzo 1992 n° 1. Di fronte ad un uso eccessivo dei provvedimenti di clemenza a carattere generale, dovuto al fatto dell’impiego per finalità improprie (riduzione del carico uffici giudiziari penali e del sovraffollamento carcerario) sempre all’avvio di Mani Pulite (l’arresto di Mario Chiesa, il “mariuolo” presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano, data 17.2.92), il Parlamento si decise a riformare l’istituto, rendendo assai più difficile l’approvazione della legge di concessione dell’amnistia o indulto, con la previsione della maggioranza qualificata aggravata dei 2/3 dei componenti di ciascuna camera (quel quorum ex articolo 138, comma terzo, della Costituzione previsto nel procedimento di revisione costituzionale, quale soglia idonea ad evitare richieste di referendum approvativo, qualora sia raggiunto in sede di seconda votazione da ciascuna camera).

Pochissimi si accorsero dell’elemento di irrigidimento draconiano introdotto repentinamente, che comportò sia la sensibile diminuzione dei provvedimenti clemenziali generali, che il camuffamento dei successivi interventi in materia sotto le mentite spoglie di indultini, sconti di pena sporadici, miniriforme dell’ordinamento penitenziario, etc., con decadimento della qualità legislativa e confusione delle iniziative riformatrici. Tra gli sparuti critici, dobbiamo ricordare Mauro Mellini, il compianto Grande Amico che non fece mancare ferma disapprovazione non solo alla riforma dell’articolo 79 della Costituzione, bensì all’introduzione di un quorum cosi sproporzionatamente elevato, che presuppone l’accordo trasversale tra ampi settori del parlamento, ben oltre i numeri richiesti per la fiducia all’esecutivo, in una materia annoverabile non tra le “regole del gioco” di rilevo costituzionale, ma tra i temi di indirizzo politico (gestione politica criminale in senso lato).

Nell’intervista rilasciata il 15.7.20 (“Csm a sorteggio? Macché va ripensato dalle fondamenta”), dopo l’accenno subliminale al motto di Gino Bartali (l’è tutto da rifare), per affrontare il tema annoso della riforma della giustizia, Violante pone un problema metodologico: “fare una mappatura geogiuridica della giustizia. Conoscere per decidere”. Ebbene circa il Csm criticando “l’approccio a problemi strutturali con soluzioni elettorali”, indica la via di un ripensamento globale, dalle fondamenta dell’organo di autogoverno, tenendo contro del profondamente mutato scenario del ruolo del Csm dall’istituzione nel 1954 ad oggi, in cui la “magistratura non è più un’istituzione di funzionari periferici” ma costituisce “una componente della governance del Paese”; infine suggerisce una modifica del reclutamento dei magistrati dell’ufficio studi e di ausilio al Csm.

Anche in questa sede, Violante dimostra raffinatezza di analisi, quasi da sociologo del diritto (disciplina che nelle aule universitarie ha affiancato e surclassato, sulla base del modello anglosassone, per importanza sistemica lo studio della filosofia del diritto), ma a nostro avviso non coerente conclusione. Infatti, pur riconoscendo la realtà effettuale – il “Partito dei magistrati” lo chiamò Mellini, la magistratura come forza di governo – che i giudici-magistratura associata sono annoverabili tra gli attori politici in senso proprio, al pari di partiti e sindacati che continuando a rivestire la forma di “associazioni non riconosciute” secondo il Codice civile determinavano l’indirizzo politico-costituzionale della Repubblica, tuttavia, rifugge dall’idea di istituire una commissione d’ inchiesta parlamentare sulla magistratura. Violante infatti la stigmatizza come tentativo della “politica che vuole vestire la toga” in reazione a certi sconfinamenti di campo della magistratura, entrambi fenomeni deprecabili in quanto lesivi dell’equilibrio tripartito dei poteri di montesqueiana memoria, a fondamento dello Stato di diritto liberaldemocratico. Ebbene balza, di nuovo, agli occhi altra fuorviante contraddizione tra la pretesa di riconoscere e canonizzare un ruolo “governativo” della società civile da parte dei giudici – quella governance che altro non è che la declinazione nel gergo del nuovo secolo del “governo dei giudici” del XIX secolo Usa – ed il richiamo aulico all’asettico schema tripartito dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) che non è mai esistito, vuoi per l’esistenza di criteri di collegamento, che per il dinamico atteggiarsi dei loro concreti rapporti.

Ma l’illustre ex presidente di Montecitorio sottace il fattore decisivo che , quantomeno dagli anni 1970-1980, impedisce al potere giudiziario domestico di regolare il sistema giustizia nel rispetto del canone tradizionale: l’esistenza di quel circo mediatico–giudiziario, alimentato in primis dai perversi intrecci tra mondo dell’informazione e Procure delle Repubbliche, che condiziona e deforma le notizie sui principali snodi processuali, onde suscitare clamore ed attirare alla propria causa sempre più ampi strati dell’opinione pubblica (confronta il classico Il circo-mediatico giudiziario, di Daniel-Soulez Lariviere). Il portato di intrinseca politicità dell’azione della magistratura in Italia – ben prima di Tangentopoli – risiede nell’eco massmediatica (già radio e tivù, oltre a giornali e carta stampata; oggi internet, social networks, dirette Facebook, Webinar), che ogni iniziativa giudiziaria, in specie se rivolta ai rappresentanti di alto livello del ceto politico o ai colletti bianchi, ineludibilmente è destinata ad assumere (figuriamoci ora con la dilatazione abnorme dei reati in tema di corruzione o di scambio politico-mafioso, dove il sospetto ha preso il luogo del rigido rispetto del principio di tassatività della norma incriminatrice penale, ex articolo 25 della Costituzione).

Questo dato di intrinseca politicità, prescinde da un intento politico preordinato pur spesso presente e connesso alla eziopatogenesi di troppe indagini mirate o esplorative, condotte – come sempre ha stigmatizzato Mauro Mellini, criticando la sopravvivenza del feticcio dell’obbligatorietà dell’azione penale, all’introduzione del nuovo Codice di procedura penale italiano improntato al sistema accusatorio – non in base al preventivo pervenimento di una notitia criminis, ma alla ricerca della medesima, in forza di notizie persino estrapolate da articoli di giornali o rimaneggiate su pubbliche dicerie. Tuttavia Violante giunge a rassicuranti conclusioni, ammonendo che “se uno di questi non rispetta i propri limiti, possono esserci squilibri gravi ai danni dei cittadini” descrivendo con certosina puntualità lo stato fisiologico e le conseguenze pregiudizievoli del perverso intrecciarsi di rapporti negli ultimi decenni tra politica e magistratura, recte tra magistratura e politica – anche da un punto di vista soggettivo, dato l’impressionante numero di magistrati, appartenenti ad ogni corrente, che dal 1975, post emergenze nazionali del terrorismo, mafia e corruzione, hanno fatto stabile ingresso in Parlamento o nel mondo politico o parapolitico (il sindaco Luigi De Magistris, il governatore Michele Emiliano, l’ex presidente dell’Anac Raffaele Cantone), numero che non trova paragone in nessuna democrazia liberale .

Questo dato innegabile che dovrebbe indurre a riflessioni sistemiche ogni riformatore (a parte il “Rottamatore” Matteo Renzi che voleva il pm Nicola Gratteri a via Arenula), è sfuggito all’attenzione del teorico Violante. Nel nostro Paese da decenni i magistrati – alti funzionari statali non elettivi e quindi politicamente irresponsabili – pretendono di concorrere a dettare l’indirizzo politico nazionale, condizionano scelte legislative e governative, non solo in ambito della giustizia; a questa distorsione permanente e pervasiva, occorre che qualcuno che abbia a cuore le sorti del Paese, ponga rimedio, affinché il lascito morale di un giurista raffinato, un parlamentare preparato, un avvocato generoso, un consigliere controcorrente del Csm nonché un impareggiabile pubblicista come Mauro Mellini da Tolfa, non vada disperso.

“Non ho alcuna remora a dire che non mi fido di questa magistratura”.

(Mauro Mellini).

 

Aggiornato il 20 luglio 2020 alle ore 15:44