L’ossessione Usa per l’eufemismo non ha sconfitto il razzismo

I disastri del linguisticamente corretto. Le perifrasi che inseguono un’identità e il caso George Floyd. Che fa tornare alla mente la provocazione di Robert Hughes che nel 2003 pubblicò “La cultura del piagnisteo” (Adelphi), da leggere e rileggere, a proposito dell’ossessione tutta americana per l’eufemismo (“quella sorta di Lourdes linguistica, dove il male e la sventura svaniscono nelle acque dell’eufemismo”).

Diciassette anni dopo il suo saggio, a dimostrazione che fu tutt’altro che una provocazione ma una lucida e impietosa analisi dello stato delle cose, l’ennesimo abuso della polizia americana su una persona di colore, fa emergere l’ipocrisia dilagante che purtroppo dagli Stati Uniti ha infettato tutto l’Occidente – presunto – liberal. Il movimento dei diritti civili non ha intaccato minimamente il razzismo della società americana, che si è illusa di eliminare disparità e discriminazioni chiamandole semplicemente con un altro nome, nella speranza di farle sparire.

Un modo di agire, come osserva Hughes citando George Orwell e il suo “Politics and the English Language” del 1946, che devasta la lingua senza smuovere la realtà di un millimetro (“il linguaggio politico è inteso a far sembrare veritiere le menzogne e rispettabile ogni nefandezza, e a dare una parvenza di solidità all’aria fritta”). La Lourdes linguistica, afferma Hughes, non ha consentito purtroppo al paralitico di alzarsi dalla carrozzina da quando l’amministrazione Carter ha deciso di chiamarlo ufficialmente “ipocinetico”. E purtroppo lo stesso omosessuale ha smesso di pensare che gli altri lo amino di più, o lo odino di meno, perché viene chiamato “gay” (“l’unico vantaggio è che i teppisti che una volta pestavano i froci adesso pestano i gay”).

Si tratta, dunque, di “leziosi contorsionismi”, che come tali dovrebbero indurre la gente “a trattarsi vicendevolmente con maggiore civiltà e comprensione”. In realtà, vedi poliziotto (bianco) cattivo contro balordo (nero) buono, “non sortiscono alcun effetto”. E qui veniamo al caso di specie. I “negri”, scrive Hughes, “nella parlata educata dei bianchi di 70 anni fa erano chiamati gente di colore, poi diventano neri, ora afroamericani o di nuovo persone di colore. Ma per milioni di americani, al tempo di George Wallace a quello di David Duke, erano restano niggers, e i cambiamenti di nome non hanno modificato la realtà del razzismo più di quanto gli annunci rituali di piani quinquennali o di “grandi balzi in avanti” abbiano trasformato in trionfi i disastri sociali dello stalinismo e del maoismo”. Lo ripetiamo?

“I cambiamenti di nome non hanno modificato le realtà del razzismo”. L’idea che si cambi una situazione, “trovandole un nome nuovo e più gradevole deriva dalla vecchia abitudine americana all’eufemismo, alla circonlocuzione e al disperato annaspare in fatto di galateo, abitudine generata dal timore che la concretezza possa offendere”. E nel 2003, Hughes riteneva che l’appello al linguaggio politicamente corretto, “se trova eco in Inghilterra, nel resto d’Europa non detta praticamente alcuna eco”.

Oggi sappiamo che a quell’appello stiamo rispondendo anche noi. Se dunque il linguaggio, nell’aggredire, diventa “grottescamente turgido” (dare del fascista a chi non la pensa come me), nel difendere “si fa timidamente floscio, e cerca parole che non possano recare offesa, seppure immaginaria”. E così, non siamo più drogati, ma eccediamo nell’uso di stupefacenti, non falliamo ma riusciamo meno bene, non siamo paralizzati ma affetti da tetraplegia. La nostra verecondia verbale, rileva Hughes, è tale che si spinge oltre la morte. Nel 1988, il New England Journal of Medicine, esortava a ridefinire un cadavere “persona non vivente”. Di conseguenza, chiosa l’autore, “un cadavere grasso sarà una persona non vivente portatrice di adipe”. Buona lettura.

Aggiornato il 20 dicembre 2022 alle ore 09:40