Il nucleare in Italia: un problema mai risolto

Quando in Italia si ragiona sul nucleare, una delle prime cose che può venire in mente è l’espressione americana Nimby – Not In My Backyard (Non nel mio giardino), cioè un atteggiamento di opposizione pubblica alle opere che riguardano questa materia, ma che in verità negli anni hanno coinvolto più o meno ogni tipo di opera pubblica di grande impatto e talvolta anche di impatto modesto, come termovalorizzatori o addirittura impianti di compostaggio o simili. La reazione che le autorità hanno nei confronti di questo fenomeno è molto spesso di stigmatizzazione di chi dovrebbe subirne gli impatti, considerando tali gruppi sociali o intere popolazioni come portatrici di scarsa cultura, gestione emotiva dei problemi, particolarismi, e così via. La verità probabilmente spesso sta nel mezzo, perché quando si va ad intervistare le persone, si scopre spesso che le motivazioni soggettivamente addotte si concentrano su altri fattori come i rischi, la scarsa e non precisa informazione o una informazione percepita come tale, l’atteggiamento torbido dei gestori unito ad atteggiamenti ritenuti arroganti, come il bloccare flussi di informazioni e, nei casi più estremi, tentare anche di mettere la mordacchia alla stampa.

Ed è anche vero che su questi sentimenti popolari talvolta prosperano politici o associazioni, molte di queste spesso anche improvvisate, per fortuna altre molte serie, che prendono una bandiera in mano e l’agitano creandosi un seguito, un pubblico e un elettorato, buono anche per fare da sfondo quando ci si incatena a qualche inferriata per protesta e si chiamano le telecamere, tanto che negli Stati Uniti è stata coniata anche un’altra espressione Nimey – Not In My Electoral Yard (più o meno, non nel mio collegio elettorale), espressione che ha anche il pregio di far capire come alcune decisioni politiche potenzialmente impopolari possano essere rimandate sine die pur di non influenzare negativamente le successive elezioni, e qualche elezione vicina, come si sa, c’è sempre, tranne in questo momento di coronavirus. Così si possono creare, o quantomeno esiste l’incentivo per cui si creino, delle “isole felici”, soprattutto quando è il contribuente o l’utente delle bollette elettriche, a pagare, dei sistemi in cui il “non fare” potrebbe diventare conveniente, perché intanto il contribuente e gli utenti pagano e chi è preposto a decidere non lo fa. O meglio, decide in tempi di nomine.

Non si vuole qui fare una disquisizione sul fenomeno giunto da oltreoceano del Nimby, anche se potrebbe essere oggetto di prossimi approfondimenti, considerato anche che in Italia da anni esiste un interessante “Nimby Forum”, patrocinato dalla presidenza del Consiglio dei ministri e dal Mise, nel quale si vede una cartina d’Italia punteggiata di opere in corso di contestazione, oltre 300, diffuse su tutto il territorio nazionale, ciascuna delle quali probabilmente meriterebbe un articolo. Ma c’è una curiosità, fra le opere contestate non ci sono interventi nucleari, un po’ perché gli impianti che dovrebbero essere smantellati esistono già, un po’ perché non si è dato ancora il nulla osta per il rilascio della cosiddetta Cnapi, la Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee ad ospitare il Deposito nazionale ed il Parco tecnologico, destinazione finale di tutti i rifiuti nucleari italiani, da quelli ad alta attività, provenienti dalle ex centrali nucleari e dai siti ex Enea, a quelli a media e bassa attività, frutto di attività ospedaliere, industriali e di ricerca.

Non si può ad oggi sapere se si stia vivendo un caso di Nimey, ovvero una mancata decisione per motivi elettorali, per non arrivare in seguito a provocare dei casi di Nimby, cioè delle reazioni locali di contrapposizione alle opere, ma il sospetto è legittimo e ciascun ente o società coinvolte che si occupano della materia, ma anche le autorità politiche e di governo preposte, dovrebbero fare delle opportune analisi di coscienza e domandarsi se negli ultimi anni si sia fatto abbastanza per raggiungere un livello di autorevolezza tale da essere in grado, nel prossimo futuro, di affrontare un processo comunicativo così complesso e delicato, interfacciandosi in modo corretto con i soggetti realmente coinvolti, che ancora non sono stati ufficializzati. Naturalmente, tutto questo non dovrebbe né rallentare, né tantomeno bloccare, gli ordinari lavori nel campo che non dipendono da tali autorizzazioni, a meno che non si sia creato quell’effetto “isola felice” di cui facevamo cenno sopra. Non sia mai. Scorrendo l’inventario nazionale dei rifiuti radioattivi di Ispra ci si rende conto che esistono una serie di società e impianti anche piccoli da gestire, smantellare e bonificare.

Alcuni di questi anche di origine universitaria o industriale, il deposito LivaNova (ex Sorin Biomedica), i reattori Lena (Pavia) e Agn (Palermo), i depositi Campoverde e Controlsonic, uno a Tortona (Alessandria) e l’altro a Milano, Cemerad a Statte (Taranto), Cesnef ancora a Milano, Protex a Forlì e Sicurad a Palermo. A questi si aggiunge il Reattore di Ricerca Rts–1 “Galileo Galilei” del Centro interforze studi per le applicazioni militari (Cisam) in provincia di Pisa. Come si vede il problema è ben diffuso sul territorio nazionale, coinvolgendo nove regioni, Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Campania, Basilicata, Puglia e Sicilia. Ma se si spulcia fino alla fine l’inventario Ispra, oltre alla sgradevole sensazione che si tratti “solo” dei siti ufficiali, un po’ come accade per le discariche di rifiuti industriali, salvo poi scoprire attraverso indagini giudiziarie siti abusivi fortemente inquinanti, si scoprono così una serie di depositi radioattivi poco conosciuti e diffusi nel nord Italia, segnatamente in Lombardia e Veneto. Si tratta di una serie abbastanza lunga che Ispra cataloga come “rifiuti radioattivi derivanti da attività di bonifica”, effettivamente si tratta di una definizione corretta se si considera il momento in cui vengono scoperti e si interviene, mentre se si guarda al momento in cui si sono generati si tratta di un mix di eventi accidentali, incidenti, lavorazione di materiali vari e rottami contaminati provenienti dall’estero e non totalmente controllati, e così via.

Si tratta di siti sui quali talvolta sorgono fondati dubbi sull’estensione della contaminazione, sul fatto che vi siano o si generino perdite, percolati contaminati che si possono diffondere nel suolo e nelle falde acquifere. I territori interessati sono quelli su cui incidevano le Acciaierie Venete che a dispetto del nome erano anche nel Bresciano: Sarezzo, Alfa Acciai, ex Cagimetal ed ex Cava Piccinelli, Discarica Capra a Capriano del Colle, Industrie Riunite Ordolesi a Odolo, Raffineria Metalli Capra a Castel Mella e un altro stabilimento della stessa società a Montirone, la Rvd ex Fonderie Rivadossi a Lumezzane e la Service Metal Company a Mazzano. Se ci spostiamo in provincia di Como troviamo la Premoli Luigi & Figli a Rovello Porro e, in provincia di Milano la Eco-Bat a Paderno Dugnano e poi ancora la Intals a Parona (Pavia) e la Astra a Gerenzano (Varese). In Veneto, le Acciaierie Beltrame a Parona e l’Azienda ospedaliera universitaria integrata di Verona. Insomma, è evidente che il sistema che dovrebbe gestire queste tipologie di rifiuti è in difetto, è evidente un “buco” che non consente di chiudere dei cicli di sicurezza che sono interesse di tutti gli italiani e massimamente di chi si trova in prossimità dei siti inquinanti.

Sembra che persino il sistema dei controlli rischia di essere insufficiente, oltre alle croniche insufficienze delle Arpa regionali e delle Dogane nei porti italiani, spesso punto di ingresso senza controlli adatti a scoprire eventuali importazioni di materiali, si aggiungono quelle degli enti di vertice preposti ai controlli e all’emanazione di guide tecniche, normative e procedurali alle quali l’intero sistema si dovrebbe attenere. Ci riferiamo a Ispra e, ancora di più, alla Isin, strutture che fra pochissimi anni soffriranno parecchio la messa in pensione del proprio personale più qualificato che sarebbe tempo di affiancare a persone più giovani in grado di sostituirli e garantire almeno la continuità del sistema ed il suo funzionamento.

Aggiornato il 11 maggio 2020 alle ore 11:47